GD - Roma, 8 ago. 25 - C'è un momento preciso, forse già alle nostre spalle, in cui una civiltà cessa di potersi chiamare tale. Non è quando costruisce bombe più potenti. Non quando progetta armi che sanno uccidere con più precisione. Non quando affama interi popoli con l'indifferenza dei mercati. Il vero collasso morale avviene quando tutto questo accade sotto gli occhi di tutti… e nessuno si vergogna più. Ottant'anni fa, l'umanità conobbe la sua ora più buia. Prima Hiroshima, poi Nagasaki. Un lampo accecante, poi il silenzio. In mezzo, la fine del mondo per decine di migliaia di vite. Bambini inceneriti all'istante, corpi evaporati, volti cancellati dalla luce. Nessuna guerra aveva mai prodotto una distruzione così assoluta, così impersonale. La scienza, l'ingegno, l'industria, tutti al servizio dell'annientamento. Eppure, ancora oggi, i sopravvissuti di quelle due mattine d'agosto parlano. Con la voce spezzata ricordano l'odore della carne bruciata, i volti dei fratelli svaniti, i giochi lasciati a terra. Lo fanno per ricordarci cosa succede quando la coscienza cede il passo all'obbedienza e l'indifferenza diventa politica. Ottant'anni dopo, mentre le commemorazioni scorrono nei notiziari con la rapidità delle cerimonie già viste, il mondo brucia ancora. Striscia di Gaza, Ucraina, Yemen, Sudan, Congo, Myanmar… I nomi cambiano, il sangue resta. Le immagini scorrono in alta definizione bambini senza più gambe, madri sfinite, ospedali sventrati. Ma non ci fermiamo più. Non ci indigniamo più. Cambiamo canale, scorriamo con il dito, cerchiamo contenuti più leggeri. Perché quelle immagini ci disturbano. E allora preferiamo non vederle. Come se chiudere gli occhi potesse cancellare il dolore altrui. Non è la guerra, in sé, la nostra condanna. È l'abitudine alla guerra. L'indifferenza che si è fatta stile di vita. La capacità di convivere con l'ingiustizia come se fosse rumore di fondo. Una società che non si vergogna più di nulla è una società che ha perso il senso stesso dell'essere umana. Ma le responsabilità non sono soltanto dei popoli. Sono - e lo dobbiamo dire con forza - di chi guida i Paesi, di chi ha il potere di decidere della vita e della morte e sceglie troppo spesso la morte. Oggi la geopolitica si consuma a colpi di tweet, di dichiarazioni studiate a tavolino, di messinscene che sembrano più il copione di uno show televisivo che atti di governo. Si invade un territorio, si bombarda una città, si cancella un popolo... e poi ci si offende, da leader indignati, quando il mondo osa chiamare quelle azioni per ciò che sono, genocidi! Si finge stupore per le parole, ma non per i fatti. E nel frattempo si parla di pace mentre si firmano contratti per la vendita di armi, si promettono aiuti umanitari mentre si autorizzano nuovi bombardamenti. Si grida allo scandalo quando fa comodo, e si tace quando servirebbe solo un po' di dignità. Abbiamo visto leader imitare altri come in un gioco di specchi, come se la gravità delle questioni internazionali fosse solo un copione da recitare. Donald Trump ha rilanciato l'idea di riconoscere lo Stato palestinese, e subito Francia, Regno Unito, altri Paesi si sono affrettati ad annuire, a fare eco, come se bastasse un tweet o un comunicato per ripulirsi la coscienza. Ma il riconoscimento di uno Stato non è un post. È una scelta che esige coerenza, visione, verità. Eppure, solo pochi giorni dopo, quegli stessi leader tacciono mentre Israele decide l'occupazione totale della Striscia di Gaza, con un piano che prevede lo sfollamento forzato di un milione di persone. In 24 ore sono morte 138 persone, 771 sono rimaste ferite, ma nessuno arrossisce più. Si firma per la pace la mattina, e si approva una vendita d'armi il pomeriggio. Si piange per i civili davanti alle telecamere e si chiudono gli occhi quando cadono le bombe. È la diplomazia dell'ipocrisia. È la geopolitica trasformata in teatro. E noi, cittadini di questo tempo fragile, ci raccontiamo che non possiamo farci nulla. Che è troppo lontano, troppo complicato. E così continuiamo a vivere. Ogni giorno vediamo un bambino affamato, una madre che piange tra le macerie, un uomo che perde tutto sotto un drone. E ci limitiamo a dire che è "triste". Poi passiamo oltre. Ci facciamo un caffè. Guardiamo una serie in streaming. Torniamo alla nostra giornata. Perché crediamo che, dopotutto, non ci riguardi. Abbiamo dimenticato. Dimenticato cosa significa proteggere i più deboli, fermarsi davanti al dolore, riconoscere lo scandalo dell'ingiustizia. Ci siamo convinti che si possa vivere senza conseguenze, senza conti da pagare. Non serve essere religiosi per capire che stiamo tradendo qualcosa di sacro. Che ci sia Dio o solo la voce tremante di un superstite di Nagasaki, la verità è che esiste una coscienza universale - che chiamiamo umanità - che ci guarda. E che non assolverà chi ha avuto il potere di fermare l'orrore e ha scelto di voltarsi. Leader che si sono sentiti immortali nel proprio ego, come se mai dovessero rispondere a qualcuno. Ma i conti si fanno sempre. Se non con la coscienza, con la memoria collettiva. Se non in tribunale, nella storia. E nessuno, alla fine, potrà dire: io non c'ero. E a noi cittadini - distratti, affaticati, spesso impotenti - resta almeno il dovere della coscienza. Di non restare in silenzio. Perché il problema non è solo l'ingiustizia. È che non ci scandalizza più. E questo, forse, è davvero l'inizio della fine.
Paolo Giordani, Presidente Istituto Diplomatico Internazionale
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