Equilibrio del disordine: diplomazia e influenza nel Golfo post-Trump
17-05-2025 10:10 - Opinioni
GD - Roma, 17 mag. 25 - Nel suo più recente e controverso tour mediorientale, il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha delineato un paradigma di intervento strategico fondato sulla sinergia tra diplomazia commerciale e revisione tattica degli equilibri regionali. L’assenza di Israele dalla sua agenda ufficiale ha lasciato spazio a una proiezione di potenza attraverso accordi industriali nei settori militare, aerospaziale e dell’IA. Mentre sullo sfondo si è manifestata una complessa trama di aperture diplomatiche verso attori storicamente antagonisti come Iran e Siria. Tuttavia, il riacutizzarsi della crisi umanitaria a Gaza e la prosecuzione dei bombardamenti israeliani gettano un’ombra sul pragmatismo di Trump, sollevando interrogativi sulla sostenibilità e sulla coerenza della sua “diplomazia del profitto”.
Accordi strutturali e posture transazionali. L’intento presidenziale è stato chiaro fin dall’inizio: sganciare l’influenza americana in Medio Oriente dalle impalcature ideologiche dell’interventismo liberal e orientarla verso una logica di alleanze modulari, alimentate da interessi economici, militari e tecnologici. Con toni da “CEO globale”, Trump ha siglato intese da oltre 210 miliardi di dollari complessivi tra Riyadh, Doha e Abu Dhabi. Si tratta di accordi che spaziano dalla fornitura di sistemi d’arma avanzati al co-sviluppo di infrastrutture aerospaziali e centri di ricerca sull’intelligenza artificiale militare. Tali operazioni si configurano come strumenti di consolidamento dell’architettura securitaria del Golfo, volta non solo a contenere l’influenza iraniana ma anche a contrastare la crescente assertività della Cina nell’arena della tecnologia strategica. Washington, in questa nuova visione, non si propone più come garante dell’ordine, ma come fornitore di strumenti per la sua gestione autonoma da parte dei partner regionali.
La “mano tesa” e il calcolo iraniano. Sorprendentemente, proprio nel cuore di questo riassetto a trazione militare, Trump ha offerto un’apertura negoziale a Teheran, proponendo un ritorno a un quadro di trattative sul nucleare – ma a condizioni rigidamente unilaterali. Fonti diplomatiche parlano di una proposta in cinque punti, che prevede la sospensione graduale delle sanzioni in cambio di una moratoria verificabile sull’arricchimento dell’uranio e sulla fornitura di armamenti a milizie sciite. Non è chiaro se questa mossa rappresenti una reale volontà di de-escalation o un tentativo tattico di frammentare il blocco di resistenza regionale che ruota intorno all’Iran.
La “svolta siriana”: un realismo controverso. Altro elemento di rottura: il primo incontro ufficiale tra un presidente americano e Ahmed Al Sharaa, guida del governo di transizione siriano. L’annuncio della cessazione delle sanzioni e l’apertura a una normalizzazione graduale con Damasco costituiscono una pietra miliare nella strategia trumpiana, orientata a sostituire il paradigma del regime change con quello della stabilizzazione autoritaria controllata. La Siria, in questa visione, non è più il teatro del conflitto, ma un anello della catena di contenimento del jihadismo residuo e delle influenze russo-iraniane.
Gaza: la faglia irrisolta. L’aspetto più criticato della visita rimane l’atteggiamento verso la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. A fronte di dichiarazioni generiche (“La gente muore di fame, succedono cose terribili”), il presidente non ha formulato alcuna proposta concreta né esercitato pressione su Israele per l’alleggerimento del blocco. Le parole secondo cui gli Stati Uniti dovrebbero “prendere Gaza e trasformarla in una zona di libertà” – nonostante l’ambiguità retorica – sono state interpretate come il sintomo di un approccio post-soverenista, ma privo di strumenti operativi credibili. Nel frattempo, le operazioni israeliane sulla Striscia si sono intensificate in maniera drammatica: secondo dati dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (OCHA), solo nelle ultime tre settimane oltre 2.800 civili palestinesi sono rimasti uccisi e 1,2 milioni risultano sfollati. In totale, dal riacutizzarsi del conflitto nell’ottobre 2023, il numero delle vittime civili a Gaza ha superato le 45.800 unità, con infrastrutture civili – scuole, ospedali, impianti idrici – sistematicamente colpite. Nessuna misura di mitigazione è stata annunciata da parte di Washington, generando un crescente isolamento diplomatico rispetto alle posizioni europee e internazionali.
Una dottrina in divenire. Il viaggio di Trump può essere letto come un banco di prova per una nuova dottrina estera informale, che si regge su tre pilastri: la proiezione industriale come strumento di influenza strategica, la ridefinizione delle alleanze secondo logiche contrattuali e il disimpegno selettivo dai conflitti congelati. Tuttavia, questa postura, se priva di un supporto multilaterale e di meccanismi di accountability, rischia di favorire regimi autoritari, trascurare le crisi umanitarie e alimentare ulteriori instabilità. Nel quadro della nuova competizione multipolare, la domanda che emerge è se gli Stati Uniti possano ancora svolgere un ruolo sistemico nella costruzione di un ordine regionale inclusivo o se abbiano scelto – come sembra suggerire questo tour – una traiettoria transazionale che privilegia l’efficienza contrattuale alla legittimità internazionale.
In sintesi, il viaggio mediorientale del presidente Trump rappresenta un momento di svolta nella narrazione della politica estera americana. Ma tra memorandum miliardari e promesse di distensione, il Medio Oriente resta un campo di crisi senza soluzioni. E il rischio è che, ancora una volta, la stabilità venga sacrificata sull’altare della rendita geopolitica di breve periodo.
Cristina Di Silvio
Esperta di Relazioni Internazionali
Fonte: Cristina Di Silvio
Accordi strutturali e posture transazionali. L’intento presidenziale è stato chiaro fin dall’inizio: sganciare l’influenza americana in Medio Oriente dalle impalcature ideologiche dell’interventismo liberal e orientarla verso una logica di alleanze modulari, alimentate da interessi economici, militari e tecnologici. Con toni da “CEO globale”, Trump ha siglato intese da oltre 210 miliardi di dollari complessivi tra Riyadh, Doha e Abu Dhabi. Si tratta di accordi che spaziano dalla fornitura di sistemi d’arma avanzati al co-sviluppo di infrastrutture aerospaziali e centri di ricerca sull’intelligenza artificiale militare. Tali operazioni si configurano come strumenti di consolidamento dell’architettura securitaria del Golfo, volta non solo a contenere l’influenza iraniana ma anche a contrastare la crescente assertività della Cina nell’arena della tecnologia strategica. Washington, in questa nuova visione, non si propone più come garante dell’ordine, ma come fornitore di strumenti per la sua gestione autonoma da parte dei partner regionali.
La “mano tesa” e il calcolo iraniano. Sorprendentemente, proprio nel cuore di questo riassetto a trazione militare, Trump ha offerto un’apertura negoziale a Teheran, proponendo un ritorno a un quadro di trattative sul nucleare – ma a condizioni rigidamente unilaterali. Fonti diplomatiche parlano di una proposta in cinque punti, che prevede la sospensione graduale delle sanzioni in cambio di una moratoria verificabile sull’arricchimento dell’uranio e sulla fornitura di armamenti a milizie sciite. Non è chiaro se questa mossa rappresenti una reale volontà di de-escalation o un tentativo tattico di frammentare il blocco di resistenza regionale che ruota intorno all’Iran.
La “svolta siriana”: un realismo controverso. Altro elemento di rottura: il primo incontro ufficiale tra un presidente americano e Ahmed Al Sharaa, guida del governo di transizione siriano. L’annuncio della cessazione delle sanzioni e l’apertura a una normalizzazione graduale con Damasco costituiscono una pietra miliare nella strategia trumpiana, orientata a sostituire il paradigma del regime change con quello della stabilizzazione autoritaria controllata. La Siria, in questa visione, non è più il teatro del conflitto, ma un anello della catena di contenimento del jihadismo residuo e delle influenze russo-iraniane.
Gaza: la faglia irrisolta. L’aspetto più criticato della visita rimane l’atteggiamento verso la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. A fronte di dichiarazioni generiche (“La gente muore di fame, succedono cose terribili”), il presidente non ha formulato alcuna proposta concreta né esercitato pressione su Israele per l’alleggerimento del blocco. Le parole secondo cui gli Stati Uniti dovrebbero “prendere Gaza e trasformarla in una zona di libertà” – nonostante l’ambiguità retorica – sono state interpretate come il sintomo di un approccio post-soverenista, ma privo di strumenti operativi credibili. Nel frattempo, le operazioni israeliane sulla Striscia si sono intensificate in maniera drammatica: secondo dati dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (OCHA), solo nelle ultime tre settimane oltre 2.800 civili palestinesi sono rimasti uccisi e 1,2 milioni risultano sfollati. In totale, dal riacutizzarsi del conflitto nell’ottobre 2023, il numero delle vittime civili a Gaza ha superato le 45.800 unità, con infrastrutture civili – scuole, ospedali, impianti idrici – sistematicamente colpite. Nessuna misura di mitigazione è stata annunciata da parte di Washington, generando un crescente isolamento diplomatico rispetto alle posizioni europee e internazionali.
Una dottrina in divenire. Il viaggio di Trump può essere letto come un banco di prova per una nuova dottrina estera informale, che si regge su tre pilastri: la proiezione industriale come strumento di influenza strategica, la ridefinizione delle alleanze secondo logiche contrattuali e il disimpegno selettivo dai conflitti congelati. Tuttavia, questa postura, se priva di un supporto multilaterale e di meccanismi di accountability, rischia di favorire regimi autoritari, trascurare le crisi umanitarie e alimentare ulteriori instabilità. Nel quadro della nuova competizione multipolare, la domanda che emerge è se gli Stati Uniti possano ancora svolgere un ruolo sistemico nella costruzione di un ordine regionale inclusivo o se abbiano scelto – come sembra suggerire questo tour – una traiettoria transazionale che privilegia l’efficienza contrattuale alla legittimità internazionale.
In sintesi, il viaggio mediorientale del presidente Trump rappresenta un momento di svolta nella narrazione della politica estera americana. Ma tra memorandum miliardari e promesse di distensione, il Medio Oriente resta un campo di crisi senza soluzioni. E il rischio è che, ancora una volta, la stabilità venga sacrificata sull’altare della rendita geopolitica di breve periodo.
Cristina Di Silvio
Esperta di Relazioni Internazionali
Fonte: Cristina Di Silvio