Biden, l’Europa e il nuovo mondo
03-09-2021 12:22 - Opinioni
Paolo Giordani, presidente dell’Istituto Diplomatico Internazionale
GD – Roma, 3 set. 21 - Sono passati otto mesi dall'inaugurazione della presidenza di Joe Biden, 46° presidente degli Stati Uniti. Allora avevamo indicato tra gli elementi di discontinuità con l'amministrazione di Donald Trump anche un diverso atteggiamento degli Stati Uniti verso gli alleati europei, la ripresa e il rafforzamento della solidarietà atlantica, pilastro tradizionale della politica estera americana.
Biden è sempre stato lontanissimo dalle tentazioni isolazioniste che periodicamente scuotono il panorama politico americano. È sempre stato un convinto atlantista e con gli alleati europei ha subito dismesso toni e tattiche del predecessore.
Ma la sostanza non è cambiata. Anche dopo il passaggio del testimone, nell'ufficio ovale rimane salda la convinzione che le sfide principali per l'America - la competizione globale con la Cina e con la Russia, la lotta al terrorismo – si combattano con altri mezzi e in altri teatri. “Con altri mezzi” rimanda innanzitutto al confronto con la Cina sul commercio e sull'innovazione tecnologica, alla cyber-guerra permanente con i russi, e – per la gioia del dottor Stranamore - alla proliferazione nucleare nella quale le tre maggiori potenze del pianeta sono furiosamente impegnate per tenersi in scacco a vicenda.
Gli “altri teatri” sono quelli dell'Indo-pacifico e dell'Estremo Oriente, che l'ascesa di Pechino e del sud-est asiatico ha trasformato nel nuovo asse del mondo.
Per dare un'idea della tensione che si accumula da quelle parti basta un esempio: dal 1° settembre una legge approvata in aprile dal Congresso del Popolo imporrebbe a tutte le navi militari e alle navi cariche di “sostanze pericolose” di notificare il loro passaggio nelle acque delimitate dalla cosiddetta “nine-dash-line”, una linea immaginaria, tracciata unilateralmente, che va dalla punta sud di Taiwan, prosegue verso Meridione lungo la costa nord-occidentale delle Filippine e del Borneo per poi risalire verso nord lungo le coste della Malesia: il mare nostrum di Pechino, equivalente a circa il 90 per cento del mar Cinese meridionale.
Il Pentagono ha già fatto sapere che non ne terrà conto, trattandosi per lo più di acque internazionali, e farà le sue esercitazioni come al solito. Che in tale contesto Mediterraneo e Medio Oriente interessino di meno agli americani, è comprensibile. Ed è comprensibile che non intendano continuare a spendere 100 miliardi di dollari l'anno per “tenere” l'Afghanistan.
Fonte: Istituto Diplomatico Internazionale
Biden è sempre stato lontanissimo dalle tentazioni isolazioniste che periodicamente scuotono il panorama politico americano. È sempre stato un convinto atlantista e con gli alleati europei ha subito dismesso toni e tattiche del predecessore.
Ma la sostanza non è cambiata. Anche dopo il passaggio del testimone, nell'ufficio ovale rimane salda la convinzione che le sfide principali per l'America - la competizione globale con la Cina e con la Russia, la lotta al terrorismo – si combattano con altri mezzi e in altri teatri. “Con altri mezzi” rimanda innanzitutto al confronto con la Cina sul commercio e sull'innovazione tecnologica, alla cyber-guerra permanente con i russi, e – per la gioia del dottor Stranamore - alla proliferazione nucleare nella quale le tre maggiori potenze del pianeta sono furiosamente impegnate per tenersi in scacco a vicenda.
Gli “altri teatri” sono quelli dell'Indo-pacifico e dell'Estremo Oriente, che l'ascesa di Pechino e del sud-est asiatico ha trasformato nel nuovo asse del mondo.
Per dare un'idea della tensione che si accumula da quelle parti basta un esempio: dal 1° settembre una legge approvata in aprile dal Congresso del Popolo imporrebbe a tutte le navi militari e alle navi cariche di “sostanze pericolose” di notificare il loro passaggio nelle acque delimitate dalla cosiddetta “nine-dash-line”, una linea immaginaria, tracciata unilateralmente, che va dalla punta sud di Taiwan, prosegue verso Meridione lungo la costa nord-occidentale delle Filippine e del Borneo per poi risalire verso nord lungo le coste della Malesia: il mare nostrum di Pechino, equivalente a circa il 90 per cento del mar Cinese meridionale.
Il Pentagono ha già fatto sapere che non ne terrà conto, trattandosi per lo più di acque internazionali, e farà le sue esercitazioni come al solito. Che in tale contesto Mediterraneo e Medio Oriente interessino di meno agli americani, è comprensibile. Ed è comprensibile che non intendano continuare a spendere 100 miliardi di dollari l'anno per “tenere” l'Afghanistan.
Restano ingiustificabili le modalità, rovinose e vergognose, del ritiro occidentale, resta increscioso e colossale il fallimento del tentativo di “esportare la democrazia” in partibus infidelium. Ma questa è un'altra storia.
La “dottrina Biden” chiama in causa soprattutto gli europei. Il dinamismo del premier italiano Draghi, che sta faticosamente cercando di organizzare un G20 straordinario sull'Afghanistan, a mala pena nasconde la deprimente realtà: l'Unione europea, allo stato, non ha una credibile politica estera comune e, a maggior ragione, non può avere un suo esercito. Tra Stati Uniti, Russia e Cina, rischia di finire come il famoso vaso di coccio.
Paolo Giordani
Presidente dell'Istituto Diplomatico Internazionale
La “dottrina Biden” chiama in causa soprattutto gli europei. Il dinamismo del premier italiano Draghi, che sta faticosamente cercando di organizzare un G20 straordinario sull'Afghanistan, a mala pena nasconde la deprimente realtà: l'Unione europea, allo stato, non ha una credibile politica estera comune e, a maggior ragione, non può avere un suo esercito. Tra Stati Uniti, Russia e Cina, rischia di finire come il famoso vaso di coccio.
Paolo Giordani
Presidente dell'Istituto Diplomatico Internazionale
Fonte: Istituto Diplomatico Internazionale