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Libia: per ministro Esteri di Tobruk, “accordo con Italia firmato con chi tratta con trafficanti”

06-11-2019 17:23 - Politica
GD - Roma, 6 nov. 19 – L’altra parte del Governo della Libia, quella che combatte contro il leader ufficiale Serraj, affila le armi politiche anche in Italia per rivendicare il diritto a governare avvalendosi non solo del mandato democratico popolare, ma anche dall’essere presente sul 90% del territorio e sull’assenza nella propria area di partenze di emigrati clandestini.
A rappresentare l”altra” Libia è stato Abdulahdi Ibraihim Lahweey, ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale della Libia, ad interim, sostenuto dal Parlamento di Tobruk, in occasione di un incontro con la stampa (organizzato dal prof. Andrea Maria Villotti, direttore emerito dell’Istituto Milton Friedman e da Alessandro Bertoldi, direttore esecutivo dell’Istituto Friedman) proprio a ridosso della Camera dei Deputati, nelle more dei diversi colloqui che ha avuto oggi a Roma con esponenti politici italiani. Al momento non è schedulato, invece, alcun incontro con rappresentanti delle istituzioni.
E il ministro Lahweey parte deciso: «il memorandum Italia-Libia sull'immigrazione non ha alcun valore, in quanto firmato con un Governo, quello di Tripoli, sostenuto da milizie che vendono i migranti ai trafficanti di esseri umani». Poi ha ricordato agli interlocutori italiani e alla stampa che «sulle coste libiche del territorio sotto il nostro controllo non c’è alcun problema di immigrazione clandestina, non ci sono partenze».
Il ministro di Tobruck ha rilevato che «noi rispettiamo i diritti umani e quelli dei migranti. Da noi non c’è alcun problema di migranti sulle coste che noi controlliamo. E questo perché da noi esiste un Governo responsabile attorno a un Parlamento eletto democraticamente. Noi abbiamo il riconoscimento popolare, con forze armate forti, una polizia, una efficace sicurezza costiera». E, invece, «ogni 2 secondi dalle coste che noi non controlliamo parte clandestinamente una persona».
Anzi, ha rivolto un invito a recarsi «a Bengasi, dove resterete stupiti nel vedere con i vostri occhi come la situazione sia sicura, come ci sia lavoro, scuole, ospedali, moschee e chiese dove pregare. Dove stiamo ricostruendo le strade, gli edifici. Dove c'è stabilità».
Di qui la sua scelta di venire «in Italia, Paese molto vicino e amico, strategico per noi e con i quale siamo legati storicamente e culturalmente, per far capire com'è realmente la situazione in Libia». Inoltre, ha aggiunto, «abbiamo avviato rapporti commerciali, abbiamo aziende americane, cinesi e di diversi altri Paesi che operano nel territorio sotto il nostro controllo e non vogliamo che l'Italia resti indietro».
Semmai, ha aggiunto, «il problema arriva da Tripoli, dove agiscono milizie legate al governo di Serraj che vendono i migranti ai trafficanti di esseri umani. Ma è proprio con questo Governo che l'Italia ha rapporti. Non so perché», ha detto Lahweej, sottolineando che «chi provoca l'immigrazione non può essere parte della soluzione. Le milizie sostenute da Serraj prendono molti soldi dalla vendita dei migranti e quindi vogliono mantenere il Paese instabile».
Ad una domanda del GIORNALE DIPLOMATICO sul perché una conformazione politica che controlla il 90% del Paese e asserisce di praticare una buona amministrazione non sia invece riconosciuta, come avviene per Serraj, dalla comunità internazionale, il ministro Lahweey ha risposto che «ci sono Paesi che per i loro interessi non risolvono i problemi, Anzi li esasperano».
In tale ottica il ministro dell’”altra” Libia ha ammonito che «l'immigrazione non rappresenta solo un rischio per il mio Paese, ma anche per l'Europa. Nel territorio controllato dal governo che rappresento non esiste l'Isis, non esiste il terrorismo. Se fossero stati rispettati gli accordi internazionali non saremmo arrivati a questo punto».
Per fermare l'immigrazione, ha detto ancora il ministro Lahweej, «quello che si spende per i barconi andrebbe investito in progetti da realizzare in Africa per creare le condizioni che non portino i giovani a scappare dal loro Paese».
Insomma, per il ministro Lahweej, quella che sta conducendo l'autoproclamato Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar «è una guerra dovuta per liberare la capitale Tripoli e se Dio vuole sarà l'ultima guerra in Libia perché l'obiettivo finale è quello di eliminare la presenza delle milizie nel nostro Paese».
Secondo Lahweej, pertanto, «il problema in Libia non è né politico né economico, ma di sicurezza. Legato al fatto che ci sono più di 21 milioni di armi nelle mani delle milizie e ai terroristi che sono venuti dalla Siria e dal Qatar con il sostegno della Turchia. Il Paese sta bruciando, ma noi non vogliamo buttare benzina sul fuoco. Per andare verso una nuova Libia democratica serve che non ci siano entità minori all'interno del Paese. Vogliamo un governo stabile e forte con la partecipazione di tutti, governato dalla legge, che rispetti i diritti umani e protegga il popolo libico in pace».
«Solo dopo aver risolto la situazione della sicurezza», secondo Lahweej «si potranno svolgere elezioni libere. Le milizie ci hanno fatto tornare indietro di 100 anni, oggi per un bambino è pericoloso uscire per strada per andare a scuola. Siamo nel 2019, ma le nostre famiglie hanno il problema dell'acqua potabile, della luce, dell'elettricità in un Paese che è ricco di petrolio. Una volta trovata una soluzione alla sicurezza interna possiamo avviare un dialogo e lavorare per la pace. Non vogliamo avere un Governo imposto dall'alto, ma vogliamo un accordo tra noi libici su chi governa».

di Dario de Marchi


Fonte: Redazione
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