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ISIS: Manciulli (ISPI), perché il jihadismo non è morto e come tenere la guardia (più) alta

19-07-2018 13:06 - Opinioni
GD - Roma, 19 lug. 18 - Dal sito Formiche.net - "I periodi di calma apparente sono i più pericolosi, dobbiamo preoccuparci di quello che avviene sottotraccia nel jihadismo: l´Asia e l´Africa sono aree dov´è in grande espansione". Andrea Manciulli, senior research fellow dell´ISPI sul terrorismo e grande esperto della materia, in questa intervista a Formiche.net fa il punto della situazione sul terrorismo internazionale e sottolinea quello che, a suo giudizio, dovrebbero fare i governi occidentali.
D.: La sconfitta dell´Isis in Siria e Iraq non deve lasciare tranquilli. Com´è la situazione in quelle aree?
R.: Senza dubbio c´è stata una sconfitta sul territorio, ma non bisogna sottovalutare le insidie perché potrebbe ripetersi ciò che accadde dopo la seconda guerra irachena quando tutto d´un tratto scomparvero le truppe speciali e i reparti migliori di Saddam Hussein. In Siria le forze più coese e preparate di Daesh (Manciulli preferisce la definizione ritenuta dispregiativa dai terroristi - ndr) si sono divise e stanno cercando di mimetizzarsi in una sorta di resilienza clandestina. Come dopo la seconda guerra irachena, quindi, ciò può creare nuovi pericoli per la stabilità dell´Iraq e della Siria. Lo sforzo non è finito, dobbiamo catturarli e neutralizzare questa resilienza.
D.: Quali conseguenze possono esserci per il Medio Oriente?
R.: Questo humus può alimentare indirettamente alcune tensioni nell´area: i rapporti con l´Iran, il dopo elezioni irachene, la questione curda, il ruolo della Turchia. C´è un clima complicato e la presenza di certi elementi legati al terrorismo va tenuta d´occhio.
D.: La sconfitta militare ha fatto fuggire molti foreign fighter e l´antiterrorismo di mezzo mondo è in allerta.
R.: Tutti avevano scommesso su un loro massiccio ritorno a casa, ma la grandissima parte ha deciso di dislocarsi in altre aree dove si possa innestare un nuovo jihadismo o alimentare quello che c´è. Lo dimostra l´Afghanistan dove sono tornati in tantissimi attraversando l´Iran, fatto su cui dovremmo riflettere. Per questo andrei molto cauto sull´attenuazione della missione Nato: lì sono all´opera Daesh, al Qaeda e i talebani.
D.: Intende dire che sarebbe un errore la riduzione del contingente italiano nella missione Resolute support, deciso dal governo Gentiloni e che potrebbe essere confermato dal governo Conte?
R.: Esprimo solo una posizione tecnica e non politica, l´Afghanistan non è fuori dalle secche: c´è un fortissimo attivismo talebano e una competizione tra al Qaeda e Daesh, come confermano gli ultimi attentati in Afghanistan e Pakistan. Lo scenario Afpak è tutt´altro che pacificato. Il disfacimento di Daesh potrebbe essere anche un elemento di propagazione verso il resto dell´area.
D.: È giusta la sensazione che i jihadisti puntino a conquistare aree a macchia di leopardo in varie parti del mondo?
R.: Stiamo assistendo a quello che voleva fare nel 2004 Osama bin Laden il quale, a differenza di Daesh che ha provato a costruire uno Stato, prevedeva la creazione di tanti fronti e di cellule pronte ad attivarsi in modo da rendere difficile per tutti confrontarsi con una minaccia che si presenta sotto forma di metastasi. Non c´è casualità, al Qaeda negli anni ha pensato a occupare gli spazi vuoti sia nel caso di Stati falliti o con problemi di controllo dei confini che nel caso di periferie urbane dove ci sono problemi di integrazione e il contrasto culturale è evidente. In quest´ultimo caso i Balcani sono esempio calzante.
D.: I gruppi jihadisti in Africa controllano vastissime aree e traffici illeciti. Ci può esser approccio europeo alla lotta al terrorismo in quelle zone?
R.: Ci sono tantissimi spazi vuoti perché è difficile controllare i confini, come nel Sahel, il terrorismo è coinvolto in tanti traffici, c´è il problema Somalia, in zone della Nigeria del nord ci sono state stragi di villaggi interi. In Africa ripara chi scappa dalla Siria ed è terreno fertile per innestare un jihadismo molto violento in zone armate perché teatro di conflitti spaventosi. Asia e Africa sono due aree di grande espansione di jihadismo.
D.: L´Europa sembra però non avere un approccio univoco per contrastarlo.
R.: È certamente una priorità, ma un´intesa più forte per il contrasto al terrorismo deve partire da un´omogeneità normativa, perché abbiamo leggi che non si assomigliano ed è necessaria sia la repressione che la prevenzione.
D.: Che cosa dobbiamo aspettarci da Donald Trump?
R.: Gli esperti americani in questo settore sono molto preparati, negli Usa non c´è nessuna sottovalutazione del problema jihadista in Africa e in Asia: think tank, intelligence, forze armate sono molto avanti nelle analisi e sapranno come consigliarlo.
D.: Resta l´impressione che, in una fase in cui la cronaca si occupa meno del terrorismo internazionale, la politica non debba distrarsi.
R:. La storia del jihadismo ci racconta che i momenti di calma apparente sono quelli di maggiore crescita, ora dobbiamo preoccuparci di quello che avviene sottotraccia. Sta prendendo terreno una modalità qaedista: non si abbandona la scelta mediatica di Daesh che crea simpatizzanti sul web e quindi avremo un fenomeno che si allarga nello spazio, apparendo meno invasivo ma che sarà più minaccioso, e che nello stesso tempo userà la simpatia mediatica su larga scala continuando proliferare anche in Europa.

di Stefano Vespa

http://formiche.net/2018/07/manciulli-jihadismo/


Fonte: Redazione
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