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Sudan: la crisi della “Transizione democratica"

28-10-2021 15:45 - Opinioni
GD - Roma, 28 ott. 21 - Molto probabilmente le proteste della popolazione del Sudan, tra cui vi sarebbero già dieci morti e 140 feriti, e le reazioni degli attivisti che hanno aggirato il blocco delle comunicazioni e di internet, hanno indotto il “moderato” generale Abdel Fattah al Burhan a non inasprire la repressione. Le ultime notizie sul golpe in Sudan annunciano l’avvenuta liberazione del premier Abdalla Hamdok, cui sarebbe stato permesso anche un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano, Antony Blinken. Il leader militare alla guida del Consiglio sovrano - che dal 2019 gestisce la “coabitazione” con i civili, insieme al Governo fino a ieri retto dall’economista Hamdock - ha tenuto a precisare di essere intervenuto per impedire una guerra civile e ha indicato che presto sarà costituito un governo di tecnici per affrontare la grave crisi economica del paese, mentre sarà rispettata la scadenza di luglio 2023 per le elezioni politiche.
Tuttavia, rimangono agli arresti diversi ministri, mentre altri esponenti politici vengono ancora arrestati, fra cui Sediq al Mahdi, leader dell’Umma Party, principale partito politico del Sudan, e Ismail alTaj, leader dell’Associazione dei professionisti sudanesi, altro importante movimento cui si deve la deposizione del despota al Bashir nel 2019.
È altrettanto probabile che sugli intendimenti del generale Al Burhan possano avere fatto presa le reazioni internazionali. L’Unione Africana ha “sospeso” il Sudan, e la Banca Mondiale di Washington DC ha bloccato gli aiuti, una misura che più preoccupa i militari che hanno assunto le responsabilità del governo e devono gestire la profonda crisi dell’economia e delle finanze sudanesi.
Gli USA hanno già disposto il congelamento di 700 milioni di dollari, e non tarderanno altre misure dall’UE. Tuttavia non tutti nelle varie componenti sociali e tribali sudanesi sono schierati contro i “golpisti”. Già agli inizi di ottobre in alcune manifestazioni di piazza una parte della stessa popolazione aveva inneggiato ad un governo di militari per porre fine alla grave crisi economica. Questo sentire ha trovato ora conferma nella notizia che a Port Sudan la tribù dei Beja appoggia i militari e ha rimosso il blocco del porto attuato da settembre.
Gli scenari sono dunque ancora incerti. Gli USA attualmente propendono per il ripristino delle condizioni della “transizione democratica” con il ritorno dei civili al governo. Ma potrebbero ripensarci, soprattutto se iniziano a temere che il generale Burhan possa trovare aperture dalla Russia e dalla Cina. Mosca ha già richiamato la comunità internazionale a non ingerirsi in vicende interne di uno Stato sovrano. La Cina ha un trascorso di grandi intese con il Sudan, e nel 2018, ai tempi di al Bashir, ha cancellato 10 miliardi di dollari di debito.
Affinità significative poi si possono ipotizzare con l’Egitto dell’altro generale Al Sisi, e non può escludersi che il sostegno possa venire anche da Arabia Saudita e Qatar, in nome del legame storico che unisce il Sudan all’islam e al mondo arabo.
Come è stato osservato (vedi anche "La Ragione, Sudan, un golpe annunciato", 29/10/2021), per comprendere meglio la crisi che in questi giorni sta vivendo il Sudan è importante ricordare le fasi principali dell’epilogo di quella che è stata definita l’ultima delle “primavere arabe”, l’ampio sollevamento popolare che nel 2019 portò alla destituzione del despota Al Bashir, che aveva governato il paese per trent’anni. Ma arrestato Al Bashir, ora a rischio di essere consegnato anche alla corte penale internazionale per genocidio, il progetto di “transizione democratica” del Sudan, attuato con un sistema di condivisione del potere tra civili e militari, è messo a dura prova: la pandemia aggrava la crisi economica e i mai sopiti conflitti infracomunitari, deflagrano gli scontri per le richieste di acqua, energia elettrica e per l’aumento del prezzo del pane. Quando è il momento della turnazione dei civili alla guida del Consiglio sovrano, il “moderato” generale Al Burhan è spinto dalla forte sfiducia popolare nel governo e dalle pressioni della componente militare più dura, quella che fa capo al suo vice, il generale Mohamed Dagalo “Hemetti”.
È l’uomo forte che comanda le Rapid Support Forces, la milizia della repressione in Darfur, che ora è un elemento centrale, perché su di essa si regge il controllo di gran parte del territorio e la sorveglianza di tremila chilometri di confini, permeabili ai traffici illegali, tra cui quello di esseri umani.
Il futuro del Sudan è ora una grande incognita: dipenderà molto da quanto la comunità internazionale non si lascerà sopraffare dalle reciproche diffidenze delle grandi e medie potenze regionali, e sarà invece coesa nel guardare piuttosto al destino sia degli oppositori, attualmente agli arresti in oscure località, sia dei 44 milioni di abitanti ancora soggiogati dalla fame e dallo stato di guerra permanente.

Maurizio Delli Santi
membro dell'International Law Association


Fonte: Maurizio Delli Santi
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