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La vera strategia di Putin: non regge retorica rivendicazioni nel Donbass

23-02-2022 09:58 - Opinioni
Vladimir Putin Vladimír Putin
GD - Roma, 23 feb. 22 - Il “discorso alla nazione” tenuto dal presidente russo Vladimir Putin la sera del 21 febbraio è destinato a passare nella storia delle “false rappresentazioni” che hanno tentato, stavolta in maniera a dir poco grossier, di giustificare il casus belli. Putin ha sostenuto che l’Ucraina “è stata creata dalla Russia e ne è parte integrante, per la sua storia e la sua cultura”. Ed ha aggiunto: “l’Ucraina non esiste se non all’interno della Russia”.
Nulla di nuovo per chi ha letto l’articolo che lo stesso Putin aveva pubblicato nel luglio scorso sotto il titolo “Sull'unità storica di russi e ucraini”. Qui si ritrova tutta l’agiografia dell’impero zarista, dei miti del panslavismo, della “Terza Roma” cristiano-ortodossa, dell’unità linguistica: “Russi, ucraini e bielorussi sono tutti discendenti dell'antica Rus', che era il più grande stato d'Europa”. Ma proprio sulla cultura della grande Rus’ gli storici più rigorosi sottolineano che questa è nata a Kiev nel Medioevo, per poi diffondersi nel resto dell'Est: in sostanza, prima si è affermata Kiev, e solo dopo è venuta Mosca, non il contrario.
I riferimenti storici sulle origini e identità delle Nazioni sono sempre un terreno minato, specie se si vuole tentare una destrutturazione dello status quo. Sarebbe come se richiamandosi alla grandezza dell’Impero Romano o di quello Napoleonico l’Italia o la Francia volessero sostenere rivendicazioni territoriali e identitarie. Putin stesso sarà stato consapevole della inconsistenza delle sue pretese, e allora ha introdotto l’altro argomento diretto a screditare l’apparato statale dell’Ucraina. Ha accusato Kiev di ricercare la guerra, di avere messo in atto una vera e propria persecuzione - precedentemente aveva parlato di “genocidio” - nei confronti delle minoranze russe del Donbass, di fare “peggio dei suoi padroni occidentali”, di avere un governo corrotto, “in mano a degli oligarchi anti-russi”, e a gruppi di “neo-nazisti e terroristi anti-russi”. Enfatizzando per ultimo l’esodo dei civili dal Donbass diretti in Russia, Putin ha quindi affermato il “riconoscimento” unilaterale delle “Repubbliche Popolari” di Donetsk e di Lugansk, e disposto il dispiegamento delle forze russe in un’operazione di “peacekeeping”, concordata con i due autoproclamati leader dei territori secessionisti.
Anche su questi argomenti è evidente la mistificazione della realtà propria delle tecniche di disinformazione della guerra ibrida di Putin. La Russia non può certo dare lezioni all’Ucraina e all’Occidente sulla tutela dei diritti umani, o di quelli civili e politici, ovvero su forme di governo immuni dalla corruzione e dai condizionamenti degli oligarchici. E sotto il profilo del diritto internazionale vale richiamare alcuni principi fondamentali. Le norme consuetudinarie dispongono il rispetto della “sovranità territoriale” di uno Stato, in questo caso dell’Ucraina. La Carta delle Nazioni Unite all’articolo 2 para 4 impone in particolare agli Stati di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza dirette “contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”.
La retorica delle rivendicazioni storiche sulla comune “madre Russia” e le narrazioni sul diritto di difendere le minoranze di etnia russa non possono giustificare alcun legittimo “casus belli”, neanche in nome di un supposto principio di “autodeterminazione dei popoli”. Nel diritto internazionale il richiamo a tale principio, che legittima le c.d. “guerre di liberazione nazionali”, è ammesso solo in determinate circostanze, ovvero quando risulta acclarato che “i popoli” sono costretti a lottare “contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera e contro regimi razzisti”. La regola si rinviene in particolare nel I Protocollo addizionale del 1977 alle Convenzioni di Ginevra, e nel Patto sui diritti civili e politici del 1996, all’articolo 1. Il riferimento alla nozione di “popolo” e il richiamo ai soli casi indicati esclude pertanto che il “diritto di autodeterminazione” possa essere esteso alle minoranze etniche, che possono reclamare comunque diritti civili e politici in forme di autonomia amministrativa e rappresentanza politica, senza porre in discussione l’integrità dello Stato di appartenenza. A stretto rigore, dunque, salvo i casi citati di dominazione coloniale, regime razzista, o occupazione straniera, nel diritto internazionale rimane inviolabile il principio della sovranità e della integrità territoriale degli Stati, e non può declinarsi un “diritto alla secessione”, o peggio alla “annessione” ad un altro Stato. L’autodeterminazione non è quindi riconoscibile nemmeno a “movimenti secessionisti che facciano capo ad un popolo che coesiste insieme ad altri in uno Stato federale indipendente” (così Natalino Ronzitti in Diritto internazionale dei conflitti armati, 2017).
È il caso di menzionare poi che tra gli obblighi internazionali, tuttora vigenti e pienamente validi, vi sono, nel particolare quadro dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), gli Accordi di Helsinki del 1972, che lanciarono il dialogo tra Est e Ovest, stabilendo un sistema permanente di “misure di fiducia e sicurezza” “da Vancouver a Vladivostok”. Nell’Atto Finale di Helsinki sono chiaramente tratteggiati principi e obblighi giuridici inderogabili, richiamati in alcuni specifici titoli, che è opportuno richiamare: “I. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; II. Non ricorso alla minaccia o all'uso della forza; III. Inviolabilità delle frontiere; IV. Integrità territoriale degli Stati; V. Risoluzione pacifica delle controversie VI. Non intervento negli affari interni”. La lettura integrale di questi titoli può consentire a chiunque di dirimere ogni dubbio su come la Russia abbia travalicato tutti i limiti.
Per ultimo, vale ricordare l’articolo 8 bis dello Statuto della Corte penale internazionale, introdotto nella Conferenza di Kampala nel 2010, ed entrato in vigore sul piano internazionale dal 2012. In questa norma si definisce con chiarezza il crimine di “aggressione internazionale”, inteso come “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite”. La norma, nel richiamare la Risoluzione 3314 (XXIX) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 14 dicembre 1974, enuclea quali condotte debbono considerarsi “atti di aggressione”, e fra queste figura anche “l’invio da parte di uno Stato, o in suo nome, di bande, gruppi, forze irregolari o mercenari armati che compiano atti di forza armata”.
La valutazione di quali siano le reali intenzioni di Putin non è univoca. I più ottimisti prospettano che l’obiettivo di Mosca sia quello di partire da un atto di forza per adoperarlo come arma nelle future trattative, anche perché lo schieramento militare russo in atto non avrebbe la forza di sostenere sforzi prolungati. Ma c’è anche il rischio che l’intervento della Russia non si limiti alle regioni di Donetsk e Lugansk, di fatto già popolate da una maggioranza filo-russa. Come sostiene l’intelligence di Biden, Mosca potrebbe estendere l’attacco a Kiev, mirando ad insediare un nuovo governo filo-russo. E non può escludersi anche qualcosa di più serio: l’iniziativa sull’Ucraina potrebbe rappresentare una prima mossa per sondare le reazioni dell’Occidente, e valutare come sfruttare le debolezze e le divisioni dell’avversario per meglio realizzare il disegno, ormai scoperto, di riaffermare, anche con i mezzi di una guerra ibrida permanente, l’egemonia russa nell’area dell’Europa orientale e dell’Asia centrale, almeno in una buona parte del compianto territorio dell’ex Unione Sovietica. È per questo che per Putin la prospettiva che altri Paesi aspirino alla Nato è come fumo negli occhi che gli annebbia la vista.

Maurizio Delli Santi
membro dell’International Law Association


Fonte: Maurizio Delli Santi
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