05 Maggio 2024
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Ambasciatore USA a Roma? Pelosi ancora in corsa, ma dietro rispunta Robert

21-11-2022 10:43 - Ambasciate
Nancy Pelosi e Sergio Mattarella (foto Quirinale) Nancy Pelosi e Sergio Mattarella (foto Quirinale)
Stephen Robert con la moglie Stephen Robert con la moglie
GD – New York, 21 nov. 22 – (La Voce di New York) - Alcuni media hanno scritto che Nancy Pelosi, speaker del Congresso USA, ha rinunciato all’Ambasciata in Italia dopo le dimissioni dalla leadership democratica alla Camera. Hanno scritto male, perché Pelosi non ha ancora recisamente e formalmente smentito chi la dava in partenza per Roma come Madame Ambassador of the United States. Ha semplicemente detto che continuerà “a servire i suoi elettori in California”, cosa che in politica vuol dire non escludere nulla in attesa di un no o di un sì formale. Lo scrive il solitamente molto ben informato giornalista Mario Calvo Platero in un ampio articolo scritto per “La Voce di New York”.
La differenza è sottile: se la Pelosi decide di accettare la carica di ambasciatore a Roma quando è ancora deputato, il suo processo di vetting sarà rapidissimo, e con la maggioranza democratica al Senato non c’è dubbio che passerà in fretta. Ma l’insediamento del nuovo Congresso è previsto per il 3 gennaio 2023, potrebbero dunque mancare ancora una quarantina di giorni prima di un annuncio in una direzione o nell’altra.
Intanto sono quasi due anni che a Villa Taverna non c’è un Ambasciatore americano, ma un incaricato d’affari. Un periodo di assenza formale senza precedenti per l’Italia o per altri principali Paesi europei (periodo bellico a parte). E se la Pelosi dirà chiaramente di no (non dimentichiamo che il marito dopo l’attentato subito dovrà passare una lunga convalescenza) sarà difficile che il presidente Joe Biden possa nominare un altro candidato per destinarlo a Roma in un periodo inferiore a un altro anno, passati screening, interviste, background check e audizioni al Senato.
Per il momento siamo fortunati ad avere un competente e appassionato incaricato d’affari, Shawn Crowley, acting deputy secretary for European Affairs al dipartimento di Stato, un diplomatico di carriera giunto finalmente a Roma il 18 luglio scorso. L’ho conosciuto all’evento in onore di Mario Draghi a Washington, all’Atlantic Council, l’estate scorsa, quando si accingeva a partire e mi era sembrato prontissimo e preparatissimo. Non che sia un’anomalia avere un diplomatico di carriera alla guida di un’ambasciata americana. Capita per sedi molto importanti ma difficili (Mosca durante la Guerra Fredda) o per Paesi piccoli nei quali un personaggio di livello che gode della fiducia diretta del presidente non amerebbe andare. In quei casi comunque il diplomatico di carriera diventa ambasciatore, non un incaricato d’affari che, per definizione, svolge un ruolo temporaneo.
Che fare dunque se la Pelosi rinuncerà davvero? Come evitare l’imbarazzo di un’assenza prolungata di un ambasciatore formale di Biden a Roma? In ambienti informati a Washington, rispunta il nome di Stephen Robert, già candidato di altissimo livello nominato da Biden l’agosto del 2021, finalmente autorizzato alle audizioni al Senato e pronto a partire già lo scorso febbraio. Arrivato al Senato tuttavia – e questa dinamica dei fatti non è stata ancora riferita in modo così dettagliato – Robert è rimasto stritolato dalla macchina degli attacchi politici incrociati che caratterizza oggi la politica in genere e quella americana in particolare.
Negli ambienti democratici si temeva che certe sue affermazioni di una decina di anni fa potessero danneggiare il partito alle elezioni del mid-term. nonostante ci fosse anche una raccomandazione della stessa Nancy Pelosi. Ora che il Senato e’ rimasto in mano dei democratici – e se la Pelosi dovesse rinunciare in modo formale, Robert avrebbe il vantaggio di un “vetting” già completo, anche perché’ la sua dichiarazione che preoccupava prima delle elezioni oggi avrebbe conseguenze minori e la necessità di coprire comunque in tempi brevi una posizione richiede pragmatismo.
Vediamo dunque chi è Robert e perché è stato un candidato mancato all’ultimo istante. Da sempre è un democratico DOC. Negli anni Novanta ha guidato Oppenheimer, prestigiosa banca d’affari a Wall Street, ha poi scelto altre strade successo sempre a Wall Street e a un certo punto è stato chiamato a fare il “Chancellor” (Presidente) della Brown, una delle sette leggendarie “Ivy League”, fra le più importanti università americane. Con la moglie Pilar Crespi, di origine italiana e sostenitrice del Maxxi a Roma, ha fondato Source of Hope un think-tank per donare a popolazioni disperate derrate alimentari, educazione, assistenza sanitaria, micro finanza.
È un grande collezionista di opere d’arte moderna e contemporanea, ha una casa in Toscana dove abita alcuni mesi all’anno e conosce a fondo l’Italia nelle sua varie complesse stratificazioni.
Ma ecco che dopo il “vetting” estenuante di agenzie federali durato sei mesi, improvvisamente, come ormai succede spesso nell’America dei nostri giorni, la “cancel culture” ha fatto capolino per poi dilagare nel giro di poche ore, alimentata da un commento scritto da Robert sulla natura delle tensioni irriconciliabili fra israeliani e palestinesi. In un articolo apparso il 10 agosto 2011 sul periodico “The Nation”, leggendaria bandiera della sinistra americana, Robert, in un lungo saggio su un suo viaggio in Israele, affermava – e questa è la frase incriminata – che “Israele ha creato un sistema di apartheid con steroidi, una terrificante prigione con pareti alte fino a 26 piedi ricoperte in cima di ciuffi di filo spinato”.
La frase è oggettivamente forte, soprattutto per gli Stati Uniti d’America allineati da sempre al fianco di Israele. Non c’è dubbio che Robert volesse scuotere, richiamare l’attenzione, acquistare credibilità negoziale anche fra i palestinesi. Ricordo che ne parlammo a suo tempo e pur non trovandomi d’accordo sulla sua linea, apprezzai la sua trasparenza e la sua voglia di contribuire al dialogo. Anche perché’ Robert è a sua volta di religione ebraica e in quello stesso articolo diceva di amare Israele. Nato e cresciuto in un piccolo paesino del Massachusetts, il padre era il presidente della sinagoga in paese e la madre presidente locale della Hadassah, una delle grandi organizzazioni sionistiche delle donne ebree americane. Non poteva dunque essere sospettato di non voler contribuire alla causa della pace contro Israele a solo vantaggio dei palestinesi.
Non solo negli ultimi dieci anni non ha più ripreso il tema ed ha continuato a donare a favore di cause ebraiche e di politici schierati con Israele, incluso lo stesso Chuck Schumer presidente della maggioranza al Senato, anche lui di religione ebraica. Ma nel clima di polarizzazione politica che pervade l’America, Robert non è neppure arrivato a poter difendere la sua posizione durante le audizioni della Commissione Esteri del Senato. A quel punto, secondo quando abbiamo sentito da fonti sia vicine al dipartimento di Stato che al Senato, la sua candidatura è stata sospesa da una preoccupatissima leadership del partito democratico: si era certi che Robert avrebbe attirato forti attacchi repubblicani che avrebbero messo a rischio la maggioranza democratica al Senato alle elezioni del Midterm. Un rischio che non si poteva correre.
Situazioni di questo genere in America sono la normalità: il presunto colpevole di una scorrettezza politica rischia la carriera, il posto di lavoro o una possibile nomina, per aver commesso un errore. Fra gli esempi recenti quello di Jeffrey Lieberman, il Presidente del dipartimento di Psichiatria di Columbia University, prestigioso scienziato, colpevole di un tweet che gli costò la carriera e il posto di lavoro. In quei giorni si parlava molto della celebre modella americana di origine sudanese Nyakim Gatwech, definita come la donna con la pelle più scura che si fosse mai vista. Sembrava una curiosità di costume. Ma Lieberman fece un tweet e parlando della modella e del suo record scrisse: ”Che sia un’opera d’arte o uno scherzo della natura, è bellissimo poterla vedere”. Forse un commento indelicato di un professore conosciuto per la sua serietà scientifica, di certo lo “scherzo della natura” non piacque agli attivisti e ai colleghi che protestarono definendolo un razzista. La marea della contestazione salì fino alle aule dell’università e fino al consiglio di facoltà, dove Lieberman fu convocato d’urgenza per essere prima sospeso e poi licenziato per comportamento inappropriato.
In quest’atmosfera che pervade l’America si temeva – e forse anche a ragione – che l’opposizione repubblicana potesse usare la nomina di Robert per accusare i senatori democratici, la Casa Bianca e la leadership in Congresso, di nominare come ambasciatore un estremista anti israeliano. Che Robert non lo fosse era irrilevante, sappiamo come i social media possano travisare e manipolare le fake news influenzando l’opinione pubblica o, in questo caso anche il potente voto ebraico, serbatoio chiave per i democratici. Un dubbio che poteva sembrare legittimo quando un risultato elettorale corre sul filo del rasoio. Oggi però, la partita politica è chiusa. I democratici hanno vinto il Senato e Schumer resterà Presidente della maggioranza, una vittoria chiave per lui, per i democratici e per il paese che ha mandato un messaggio molto chiaro alla deriva autoritaria trumpiana.
Possibile, anche per accelerare, recuperare Robert se la Pelosi declinerà in modo chiaro e definitivo l’offerta di andare a Roma? Possibile. Come si è detto lui e la moglie hanno un rapporto forte con il nostro Paese e sarebbero una coppia ideale per portare a Roma quello spirito di legame, savoir faire, e socialità a Villa Taverna, mix chiave per saldare il rapporto transatlantico caro al nuovo Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Se la leadership democratica fosse d’accordo la cosa potrebbe essere fatta in poche settimane. E, in mancanza di Pelosi, l’amministrazione Biden non avrebbe l’imbarazzo di essere la prima nella storia a non nominare un ambasciatore americano in Italia forse per tutto il suo primo mandato.

Mario Calvo Platero


Fonte: La Voce di New York
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