05 Maggio 2024
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Parla prof. Teresa Fava Thomas sugli “schiavi” italiani negli Usa

08-09-2020 16:25 - Ambasciate
GD - Roma, 8 set.20 - (askanews) – Sono tempi difficili per gli italo-americani, ma forse lo sono sempre stati. Sin da quando sono arrivati, come scrive "We The Italians", gli italiani emigrati in America sono molto spesso stati trattati con disprezzo e hanno lavorato molto duramente per conquistarsi il rispetto che è loro dovuto, sacrificando le loro vite, donando fatica e talento e bellezza ed eccellenza agli Stati Uniti. Oggi una stupida narrazione pretende, sbagliando clamorosamente, di mettere la celebrazione dell’eroe che si sono legittimamente scelti, Cristoforo Colombo, contro i diritti degli afroamericani, strumentalizzando l’omicidio di un innocente come George Floyd e prendendosela con chi non gli ha fatto nulla di male.
Anzi, se c’è un gruppo etnico che nella sua storia in America ha tratti simili a quelli dell’esperienza afroamericana, quello è proprio il gruppo etnico italo-americano. Si parlava apertamente di schiavi italiani, nel XIX secolo in America e lo sfruttamento dei nostri connazionali aveva un nome ben preciso, il Padrone system.
Questo scenario lo racconta una prestigiosa accademica italo-americana, la prof. Teresa Fava Thomas.
D.: Prof. Thomas, cos'era il Padrone system, e perché si chiamava così?
R.: «Ci sono diverse questioni all’interno di questa frase: la prima testimonianza del Padrone system fu la pratica di persone che nell’Italia dell’Ottocento si offrivano di educare i bambini alla musica con un contratto per loro sotto la guida di un padrone, qualcosa di simile a un apprendista. Ma questo dava al padrone il diritto di portare via i bambini da casa e di portarli dove si esibivano: spesso agli angoli delle strade delle grandi città europee, dove suonavano musica e chiedevano l’elemosina. I genitori erano portati a credere di dare ai bambini la guida di un insegnante di cui i loro genitori pensavano di potersi fidare. La realtà era che i bambini erano sotto il controllo di qualcuno che poteva davvero insegnare loro a suonare uno strumento, con lo scopo di diventare al massimo un musicista di strada a Londra o a Parigi, ma più spesso insegnava a portare soldi al padrone.Più tardi il termine fu applicato ai padroni che reclutavano operai in Italia offrendo loro promesse di buoni posti di lavoro in America e un biglietto gratis per il battello a vapore. Ma la trappola era che dovevano firmare contratti di lavoro che li mettevano sotto il controllo del padrone e spesso li portavano a pesanti lavori “a spalare e scavare’ su progetti di costruzioni dove la loro paga era sotto il controllo del padrone e il contratto non sembrava mai essere pagato. Alcuni padroni lasciavano andare i loro operai dopo alcuni mesi, ma altri erano senza scrupoli e li tenevano in condizioni prossime alla schiavitù. La promessa del libero passaggio sui piroscafi per l’America nel 1880 era allettante. I giovani si trovarono in seguito legati a lavori che avrebbero dovuto pagare il loro debito, ma non sembravano mai lasciarli liberi. Alcuni finirono per lavorare per anni a grandi opere pubbliche per pochi soldi. La Society for the Protection of Italian Immigrants (Società per la protezione degli immigrati italiani) scoprì un gruppo supervisionato da guardie armate su un progetto ferroviario. Gli Stati Uniti consideravano questi contratti di padronanza come una servitù a contratto, che era illegale negli Stati Uniti da quando il Tredicesimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti fu ratificato nel 1864. In risposta a questi abusi, il Congresso legiferò contro il sistema dei padroni nel 1885 con il cosiddetto Alien Contract Labor Act o Foran Act. Anche il governo di Roma cercò di fermarlo, poiché il reclutamento avveniva di solito nei quartieri poveri d’Italia, dove i giovani cercavano disperatamente un modo per guadagnarsi da vivere in America. Le ultime fasi del Padrone system coinvolsero alcuni italiani che gestivano negozi, vendevano biglietti per i battelli a vapore e scambiavano denaro, e persino gestivano ‘banche’ informali che prendevano i soldi duramente guadagnati dagli immigrati italiani, e spesso i risparmi che speravano di mandare a casa. I lavoratori immigrati italiani si erano rapidamente costruiti una reputazione di buoni lavoratori che faticavano duramente e risparmiavano i loro soldi da mandare a casa a genitori, coniugi e familiari in Italia. Sfortunatamente, i loro risparmi furono presi di mira dai padroni che promettevano di fornire servizi bancari, ma spesso i soldi venivano sottratti o il banchiere spariva. Ci fu una lotta per regolamentare queste “banche” e per proteggere i risparmi dei lavoratori.
D.: Cosa accadde nel 1874 con il disegno di legge denominato ‘Padrone act’?
R.: La preoccupazione più immediata in America era il benessere dei bambini i cui genitori, il più delle volte senza conoscere la realtà, avevano firmato contratti di apprendistato che erano devastanti, e la sorte dei lavoratori immigrati con contratti di lavoro che li rendevano vicini agli schiavi. Giornalisti e innovatori sociali pubblicarono articoli denunciando la realtà della vita degli immigrati in America, e ciò portò alle riforme. La legislazione del 1874 era incentrata sui contratti di lavoro minorile e li proibiva per lo stesso motivo della servitù involontaria, poiché la realtà era che queste persone erano spesso sfruttate.
D.: Alcuni dicono che gli italiani che emigrarono in America nel XIX secolo furono trattati come schiavi, soprattutto i bambini, e l’espressione ‘schiavi bianchi’ o anche ‘schiavi italiani’ fu usata in quel periodo. È un’esagerazione, o c’è qualcosa di vero?
R.: Quei termini vennero sicuramente usati in articoli di giornale e riviste. “Schiavi” è un termine che risale a quell’epoca e le incisioni di bambini che lavoravano come musicisti di strada e che venivano maltrattati erano spesso sulla stampa di allora. Uno dei primi riformatori, nella Londra degli anni Quaranta del XIX secolo, fu il filosofo politico Giuseppe Mazzini. Egli si adoperò per tenere al sicuro i bambini immigrati italiani istituendo una sua scuola per ragazzi, la Scuola Italiana di Londra. Mazzini offriva istruzione gratuita in una varietà di materie per i giovani che lavoravano nella città di Londra vicino alla zona di Clerkenwell. Il libro dello storico John Zucchi, The Little Slaves of the Harp, documenta come il termine schiavi fosse applicato a questi bambini e gli sforzi per porre fine ai loro maltrattamenti a Parigi, Londra e New York. L’enfasi di Mazzini sull’educazione come chiave per proteggerli fu usata anche qui negli Stati Uniti da una riformatrice americana, Sarah Wool Moore, che aveva studiato arte e vissuto in Italia. Tra il 1900-1911 Sarah Wool Moore fece molto per proteggere ed educare gli italiani in America e per migliorare la loro vita. Il suo più stretto collaboratore professionale fu un avvocato, Gino Carlo Speranza, che scrisse una serie di articoli che descrivevano le lotte degli immigrati italiani in America. Forse il più importante fu ‘How it Feels to Be A Problem’, che chiedeva di comprendere le lotte dei lavoratori con piccone e pala. Speranza scrisse anche a proposito delle protezioni legali di cui avevano bisogno in ‘The Alien in Relation to Our Laws’ del 1914: sosteneva che gli immigrati avrebbero dovuto imparare l’inglese e perseguire la naturalizzazione come cittadini americani, poiché ciò offriva loro una maggiore legittimazione e protezione legale. Moore contribuì a organizzare la Society for the Protection of Italian Immigrants nello Stato di New York, e un altro ufficio aperto a Boston, Massachusetts dal Reverendo Gaetano Conte. Moore scrisse un vocabolario italiano-inglese per i lavoratori adulti per imparare i termini chiave per la sicurezza sul posto di lavoro e nella vita. Il suo più grande risultato fu quello di coinvolgere insegnanti volontari e di istituire quelle che chiamò ‘Camp Schools’ per educare i lavoratori e le loro famiglie su progetti di costruzione in tutta New York e nel Massachusetts. Raccolse fondi per aiutarli e impegnò la propria vita per insegnare in queste zone remote dove morì nel 1911. Riformatori sociali come Jacob Riis indagarono sui bambini poveri che vivevano da soli a New York, in ‘How the Other Half Lives’, il suo libro fotografico che documentò la dura vita dei poveri immigrati in America, pubblicato nel 1889. La descrizione forse più scioccante fu scritta da Jacob Riis su un gruppo di giovani italiani che vivevano per le strade di Hell’s Kitchen a New York, “Real Wharf Rats”, pubblicata sul giornale "New York Sun" del marzo 1892. Riis era un fotografo che scrisse la storia, ma pubblicò anche immagini reali degli orrori degli immigrati più poveri. "Harper’s Weekly" e altre riviste di rilievo descrivessero così i disagi dei poveri.
D.: Cos’era l”Italofobia’?
R.: Era un termine usato per esprimere l’ostilità nei confronti degli immigrati italiani in America quando il loro numero si espanse nella grande migrazione del 1880-1920. Lo stereotipo negativo presente in America limitava la loro accettazione nella società e rendeva molto difficile per gli italiani di prima e seconda generazione ottenere posti di lavoro migliori, essere accettati nelle università e costruire carriere nelle professioni, specialmente legge, scienza e medicina. Lo storico Joseph Cosco scrisse un libro molto interessante sul potere degli stereotipi chiamato ‘Imagining Italians’, dimostrando il potere delle immagini negative degli italiani nei film e nella televisione come forze potenti che ostacolavano il progresso. Cosco contrappose lo stereotipo degli italiani e della mafia all’altra parte, da lui definita Italofilia, che faceva sì che una parte della società americana tenesse in grande considerazione la musica, la lingua e la cultura italiana. Purtroppo il potere dello stereotipo negativo era spesso più potente dell’Italofilia. Dagli anni Settanta del secolo scorso nel sistema universitario newyorkese si susseguirono una serie di azioni legali collettive che comportarono una discriminazione nei confronti degli italo-americani nelle assunzioni e nelle promozioni, tra cui la causa Scelsa contro la City University di New York nel 1992. Gli italiani sono oggi un gruppo che viene attivamente reclutato e promosso in quel sistema educativo e hanno il John Calandra Italian American Institute che sponsorizza programmi educativi, pubblicazioni e conferenze accademiche.
D.: Quale fu all’epoca il ruolo del (primo) Ambasciatore italiano a Washington DC, il Barone Francesco Saverio Fava, per combattere il ‘ Padrone system’? E cosa fu l’Italian Bureau at Ellis Island?
R.: In primo luogo, non ho alcuna parentela con l’ambasciatore Fava. Ammiro molto tutto ciò che ha realizzato come primo ambasciatore italiano negli Stati Uniti, istituendo la prima ambasciata italiana a Washington D.C. Fu uno dei più efficaci sostenitori degli immigrati italiani in America durante i suoi anni qui tra il 1881 e il 1893. Come diplomatico cercò di proteggere gli immigrati italiani nel mercato del lavoro e di aiutarli a stabilirsi qui, con l’obiettivo di farli diventare proprietari e agricoltori. Cercò anche di incoraggiare l’insediamento degli italiani in Arkansas in un luogo chiamato Tontitown e un altro chiamato Sunnyside; ma nessuno dei due riuscì nel lungo periodo. L’ambasciatore Fava aveva l’obiettivo di guidare gli italiani appena arrivati in America, e a tal fine istituì un ufficio a Ellis Island chiamato Italian Bureau. Il suo staff creò l’ufficio con l’obiettivo di guidare gli immigrati, a volte chiamati ‘pivelli’ perché non avevano esperienza in America. Le strategie utilizzate per aiutare gli immigrati italiani a cominciare bene in America comprendevano l’orientamento verso lavori in cui i datori di lavoro onesti li avrebbero trattati equamente, e l’aiuto nell’acquisto dei biglietti del treno e nel sistemarsi nelle pensioni senza essere sfruttati. Lo staff dell’ambasciatore Fava, tra cui Egisto Rossi e il conte Alessandro Oldrini, che gestiva l’Italian Bureau, interveniva per tradurre la lingua inglese per gli immigrati italiani e per aiutarli a trattare con i funzionari americani che gestivano l’Ufficio Immigrazione di Ellis Island. Ma l’impegno di Fava attrasse l’attenzione di alcuni americani che si definivano “immigration restrictionists”, che sostenevano che gli italiani erano disposti ad accettare i salari più bassi e che stavano togliendo posti di lavoro agli americani. In realtà, pochi americani avrebbero lavorato ai progetti edilizi difficili e pericolosi in cui venivano impiegati gli italiani, come la diga di Ashokan nello Stato di New York e il progetto del Wachusett Reservoir nel Massachusetts. Un gruppo chiamato Immigration Restriction League si formò nel Massachusetts e lavorava, come si diceva all’epoca, per ‘sorvegliare i cancelli’, a Ellis Island. In gran parte a causa della loro influenza, il Congresso decise di chiudere l’Italian Bureau nel 1900. L’IRL incoraggiò anche un gruppo guidato dal senatore Dillingham a limitare l’immigrazione dall’Italia negli anni 1910-20. Fava era Ambasciatore italiano anche nel 1891, quando undici italiani innocenti furono linciati a New Orleans.
D.: Può descrivere brevemente cosa accadde?
R.: Forse gli sforzi dell’ambasciatore Fava per proteggere gli italiani dopo le violenze del 1891 a New Orleans sono il suo risultato più notevole. Denunciò il linciaggio e chiese al governo americano di risarcire le famiglie delle vittime e che il Congresso legiferasse contro i linciaggi e ne facesse un crimine federale. La maggior parte degli immigrati italiani arrivati in America si era stabilita nelle città di Boston, New York, Philadelphia, Chicago e nelle regioni agricole della California. Pochi si erano stabiliti nel sud dell’America e coloro che vivevano a New Orleans erano rimasti intrappolati negli stereotipi razziali e nei conflitti economici. La ricerca su questo evento è stata documentata da Richard Gambino nel suo libro 'Vendetta', che racconta la storia di come 11 italiani furono accusati nel 1891 di aver ucciso il capo della polizia di New Orleans con prove molto scarse. L’accusa fu mossa contro di loro come gruppo piuttosto che come singoli individui. Alcuni italiani furono arrestati, incarcerati, processati e poi assolti; ma all’ultimo momento furono trattenuti in carcere. Una folla di esagitati si radunò e attaccò il carcere e li uccise. Alcuni dei bersagli del linciaggio erano italiani poveri, ma tra questi c’era anche Joseph Macheca, di una ricca famiglia italo-americana che si occupava di importazione e spedizione di frutta. Il risultato fu un terribile massacro che portò alle proteste ufficiali dell’ambasciatore Fava a nome delle famiglie delle vittime, sia italiane che americane naturalizzate.
D.: Quello non fu l’unico linciaggio di italiani negli Stati Uniti, vero? Cosa successe dopo quello del 1891?
R.: Roma ordinò all’ambasciatore di tornare in patria, e la rottura dei rapporti tra Roma e Washington avrebbe potuto portare alla guerra in un momento in cui la Marina Militare italiana era una forza molto potente. Un ufficiale navale americano disse alla stampa che la Marina statunitense ‘non era in condizioni di fare la guerra’. Il governo statunitense limitò le richieste di Fava di risarcire le famiglie e si rifiutò di legiferare a livello federale contro i linciaggi. L’ambasciatore Fava scrisse una serie di articoli contro questa violenza, tra cui ‘I linciaggi negli Stati Uniti: La questione giuridica’ in Nuova antologia 1902. Tra gli eventi successivi ci furono linciaggi di italiani in Colorado, Louisiana, Mississippi, Florida e Illinois. Nel 1894 oltre 200 immigrati italiani furono cacciati da un cantiere di Altoona, in Pennsylvania. Una figura centrale in questi eventi è quella di un… bizzarro italiano, Celso Cesare Moreno. Sì, mentre l’ambasciatore Fava e il personale della sua ambasciata cercavano di proteggere gli immigrati italiani in America, essi stessi subirono attacchi irrazionali che furono considerati diffamatori dai tribunali. Alla fine le folli accuse di Moreno portarono a un processo per diffamazione nel 1895. Moreno aveva sostenuto di voler difendere gli italiani, ma aveva un vero e proprio odio verso l’ambasciata italiana e il suo personale. Anche gli studiosi Rudolph Vecoli e Francesco Durante hanno scritto di Moreno nel libro “Oh Capitano!”. Tuttavia, alla fine gli attacchi pubblici di Moreno portarono ad un’indagine del Congresso sull’Italian Bureau a Ellis Island che venne chiuso nel momento in cui gli italiani erano visti come forti concorrenti nel mercato del lavoro americano. La Commissione Industriale del Senatore Dillingham al Congresso tenne udienze sulla concorrenza del lavoro americano da parte degli immigrati, ed erano preoccupati che gli italiani fossero disposti a lavorare per meno e a risparmiare di più da mandare a casa in Italia. Moreno era un personaggio complesso e le sue motivazioni erano molto forti, ma difficili da capire. Anche se cercava di aiutare gli italiani, la sua ossessione contro l’ambasciatore Fava e il suo staff fu controproducente. Fece molto più male che bene. Quando si legge il libro di Moreno, ‘History of a Great Wrong’, se ne capisce l’intensità, ma si comprende anche che le sue accuse contro il personale dell’Ambasciata erano piuttosto folli e infondate.
D.: Come abbiamo visto, gli immigrati italiani sono stati sfruttati, presi di mira, discriminati, umiliati e persino linciati.
R.: I loro discendenti, brave persone laboriose che conoscono bene e onorano la loro storia e i loro sacrifici quotidiani, sono oggi accusati di far parte dell’élite bianca che opprime le minoranze. Coloro che lo fanno vandalizzano le statue di Colombo, il simbolo che gli italo-americani hanno scelto per rappresentare la loro sofferenza; e brutalizzano le chiese che gli italo-americani hanno costruito per celebrare la loro religione. Questi atti di violenza si sono accelerati dopo il brutale assassinio di un innocente afroamericano, dove però nessun italo-americano ha avuto alcun ruolo.
D.: Ha senso per lei?
R.: In epoca contemporanea ci sono stati molti attacchi contro le statue di Colombo, e questo è accaduto per diversi anni. Forse il modo per onorare gli italo-americani è quello di considerare i successi delle molte generazioni di italiani in America, soprattutto i figli e le figlie che hanno prestato servizio nell’esercito americano, e che oggi sono spesso rappresentati in tutte le professioni. Scrivendo il mio libro, ‘The Reluctant Migrants: Migration from the Italian Veneto to Central Massachusetts’, ho scoperto che da una piccola chiesa italo-americana, quella locale di Sant’Antonio, centinaia di giovani uomini e donne partirono per combattere per l’America nella seconda guerra mondiale e 15 di loro morirono. I loro discendenti sono medici, avvocati e professori, nonché ristoratori e imprenditori. L’italofilia o il fascino per la lingua, l’arte e la musica italiana oggi esprime il motivo per cui alcuni americani hanno visitato o vogliono visitare l’Italia. Gli studenti universitari possono ora completare un corso di laurea o anche una laurea specialistica in italiano in diverse università americane. Molte ora ospitano programmi speciali su lingua, storia, musica e cultura italiana perché la forza dell’italianità attira l’interesse per i viaggi in Italia e per potersi godere anche la musica, il cibo e la cultura. Oggi Italianità è una potente forza del bene nello spingere le persone a studiare la lingua ma anche a tornare a casa in Italia. Dopo la mia prima visita in Italia (tutti e quattro i miei nonni sono veneti) ero decisa a continuare a visitare l’Italia e ho avuto la fortuna di tornarci spesso. L’Università Statale di Fitchburg, dove insegno storia, ospita il Centro di Cultura Italiana, che è stato finanziato grazie alle donazioni di un’alumna, Amelia V. Gallucci-Cirio. Il Centro promuove lo studio della lingua italiana e un programma di studio all’estero per i nostri studenti a Verona. Ho trascorso un’estate a Verona con un gruppo di giovani che, sia che avessero o meno antenati italiani, amavano stare lì e hanno fatto un’esperienza che ha cambiato la loro vita. Insegno anche in un corso per pensionati chiamato ‘Le Cinque migliori città italiane per viaggiare’, che è una guida per visitare alcuni dei luoghi più belli d’Italia. Se potessi fare una cosa, incoraggerei più scambi tra italiani e americani per far capire meglio ai secondi le bellezze dell’Italia e l’italianità.


Fonte: askanews
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