GD - Roma, 17 set. 25 - La Commissione d'inchiesta indipendente delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi, presieduta da Navi Pillay, ha reso pubblico un rapporto che rappresenta un passaggio di rilievo nel diritto internazionale e che difficilmente potrà essere derubricato a semplice documento di denuncia. Non siamo davanti a un atto politico o a una presa di posizione ideologica, ma a un testo che adotta un linguaggio strettamente giuridico e si colloca nell'alveo delle convenzioni internazionali vincolanti.
Nelle sue 75 pagine, la Commissione descrive fatti concreti che corrispondono in modo pressoché letterale agli elementi del crimine di genocidio previsti dall'articolo II della Convenzione del 1948: uccisioni sistematiche e diffuse di civili, inflizione di danni fisici e psicologici gravi e duraturi, distruzione deliberata di strutture sanitarie comprese cliniche di maternità e presidi di salute riproduttiva, imposizione di condizioni di vita intese a rendere impossibile la sopravvivenza stessa del gruppo palestinese.
A questo quadro materiale si aggiunge un tassello essenziale: la raccolta di dichiarazioni di leader e comandanti israeliani che parlano esplicitamente di “annientamento” e “distruzione totale” di Gaza. Non si tratta, secondo la Commissione, di retorica bellica, ma di indicatori concreti dell'intentio necandi, la volontà di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico o nazionale. L'accostamento fra comportamenti documentati e intenzioni dichiarate è ciò che conferisce al rapporto un peso giuridico eccezionale. Il documento non è di per sé vincolante e non produce effetti immediati, ma segue un iter ben definito. In primo luogo viene trasmesso al Consiglio per i diritti umani, che ha il compito di discuterlo ed eventualmente approvarlo con una risoluzione. Se adottato, il rapporto può essere inoltrato ad altri organi delle Nazioni Unite e aprire tre percorsi formali. Il primo è quello dell'Assemblea generale, che può utilizzarlo come base per risoluzioni di condanna o per richiedere un parere consultivo alla Corte Internazionale di Giustizia.
Il secondo è quello del Consiglio di Sicurezza, l'organo che, a condizione di superare il veto dei membri permanenti, ha il potere di adottare decisioni vincolanti, comprese sanzioni economiche e politiche o il deferimento alla Corte penale internazionale.
Il terzo percorso riguarda i tribunali internazionali, che possono acquisire le risultanze della Commissione come base probatoria nei procedimenti in corso. In altre parole, il rapporto non impone agli Stati obblighi automatici, ma fornisce all'ONU e alla comunità internazionale una piattaforma giuridica di cui non si potrà ignorare l'esistenza.
Da questo momento, la mancata azione non potrà più essere giustificata dall'assenza di prove o di qualificazioni giuridiche chiare: l'alibi dell'incertezza viene meno. Le conseguenze diplomatiche sono già visibili. Alcuni Paesi hanno sospeso forniture militari a Israele, motivando la scelta con il rischio di complicità in violazioni gravi del diritto internazionale. Altri hanno intensificato le richieste di cessate il fuoco temporanei e di corridoi umanitari sicuri, riconoscendo implicitamente il peso del dossier ONU. Nel mondo arabo, oltre alla pressione costante per fermare i bombardamenti e aprire vie di soccorso, si discute apertamente di una forza di interposizione, araba o arabo-internazionale, da schierare a Gaza con mandato ONU o Lega araba.
L'ipotesi prevede una missione di protezione temporanea, incaricata di garantire la sicurezza dei civili, il libero accesso degli aiuti e la stabilizzazione iniziale del territorio dopo la cessazione delle ostilità. È un progetto complesso, ancora in fase embrionale, che solleva interrogativi operativi e politici, ma segnala la volontà dei Paesi della regione di non limitarsi a dichiarazioni di condanna bensì di assumere un ruolo attivo nella gestione della crisi. L'Italia, come la maggior parte delle capitali europee, mantiene un atteggiamento prudente. Ha espresso crescente preoccupazione per la crisi umanitaria, ha manifestato sostegno al piano arabo per la ricostruzione e continua a richiamare la necessità di soluzioni multilaterali sotto egida ONU. Tuttavia evita di adottare termini giuridicamente impegnativi come “genocidio” e non ha ancora assunto iniziative autonome che la pongano in prima linea, preferendo restare ancorata a una posizione di equilibrio fra legami tradizionali, vincoli di alleanza euro-atlantici e sensibilità dell'opinione pubblica interna. Il significato del rapporto Pillay, in definitiva, è quello di un documento che non emette verdetti, ma stabilisce le condizioni per arrivarci. Non obbliga automaticamente a sanzioni o interventi, ma fornisce alla comunità internazionale prove e argomenti giuridici tali da rendere inevitabile un'assunzione di responsabilità. Se gli Stati e le istituzioni non tradurranno questo materiale in azione concreta, la conseguenza sarà duplice: da un lato l'aggravarsi della crisi sul terreno, dall'altro il rischio che il diritto internazionale perda ulteriore credibilità, dimostrando la propria incapacità di incidere proprio quando gli strumenti giuridici sono più chiari. Il dossier non è quindi un punto di arrivo, ma un inizio: un atto che chiama alla scelta e che misurerà la capacità delle diplomazie e delle istituzioni di non lasciare che il termine “genocidio” resti confinato a una categoria astratta, ma venga affrontato come realtà che il diritto è chiamato a prevenire e reprimere.