Musei Vaticani: “Paolo VI e Jacques Maritain: rinnovamento arte tra Francia e Italia“

14-07-2025 17:16 -

GD - Città del Vaticano, 14 lug. 25 - “Paolo VI e Jacques Maritain. Il rinnovamento dell’arte tra Francia e Italia (1945 1973)“ in collaborazione con i Musei Vaticani, Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, Centro Culturale San Luigi dei Francesi Institut français – Centre Saint-Louis e Bibliothèque Nationale et Universitaire de Strasbourg. Una mostra superba e carica di profonda cultura, intrisa di una fede forte.
Un dipinto sacro non si guarda mai da soli. Anche quando si è fisicamente soli di fronte a un’opera, ci sono sempre altri sguardi che ci accompagnano: lo sguardo di chi l’ha creata, lo sguardo di chi l’ha amata prima di noi, lo sguardo di chi ha creduto che lì, tra il silenzio della materia e il fremito dell’invisibile, potesse trovare una risposta. Forse per questo, in fondo, Jacques Maritain non ha mai scritto “sull’arte”, ma per l’arte: come se l’arte fosse una persona da difendere, da consolare, da far parlare.
La mostra “Paolo VI e Jacques Maritain: il rinnovamento dell’arte sacra tra Francia e Italia (1945-1973)”, ai Musei Vaticani, è tutto fuorché una semplice esposizione. È un racconto sussurrato tra le mura di pietra di due uomini che si sono cercati attraverso parole, opere e destini. È anche un modo per chiedersi: che cosa deve essere oggi l’arte religiosa? Un ornamento? Un’illustrazione? O una lotta, un’urgenza, una necessità di incarnare lo spirituale quando tutto intorno ci spinge verso il rumore?
Nel cuore dei Musei Vaticani, là dove le stanze di Raffaello cercano ancora di parlare al cielo e la Cappella Sistina grava con la sua onniscienza michelangiolesca, questa piccola mostra è una introspezione. Ci si muove tra lettere, disegni, pitture, ma in realtà ci si muove tra voci. E la voce che più vibra, che più risuona, non è quella di un artista, ma quella di un filosofo che ha saputo farsi “ponte”, non soltanto tra Chiesa e cultura, ma tra l’umano e il divino.
Quando Maritain fu inviato a Roma come ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, nel 1945, portava con sé un’idea di cristianesimo che non voleva essere rifugio, ma fermento. Non cercava nelle stanze vaticane una quiete diplomatica, ma un dialogo che sapesse farsi carne. A quell’epoca Roma era una città sventrata dalla guerra, eppure nei suoi caffè e nei suoi chiostri si respirava l’inizio di un’altra battaglia, quella per dare forma al sacro in un mondo secolarizzato.
E proprio lì, tra i marmi antichi e la polvere dei codici, si rinsaldò la sua amicizia con Giovanni Battista Montini. Un’amicizia che non si nutriva solo di parole — anche se le lettere tra i due potrebbero essere lette come un romanzo sull’utopia cristiana — ma di progetti concreti: su tutti, la volontà di restituire all’arte sacra quella tensione spirituale che la modernità sembrava aver disinnescato.
Quello che colpisce nel percorso della mostra non è tanto la bellezza delle opere — da Maurice Denis a Georges Rouault, da Chagall a Matisse, da Severini a Congdon — quanto la fragilità che esse contengono. Fragilità nel senso di apertura, di desiderio di ascolto. Queste non sono opere che impongono, che predicano. Sono opere che domandano. Che pongono un problema: come si dipinge Dio dopo Auschwitz, dopo Hiroshima, dopo il Concilio? È qui che l’influenza di Maritain, e soprattutto del suo “umanesimo integrale”, diventa centrale. Perché l’arte, per lui, non è mai fine a se stessa. Non è mai autonoma nel senso di autarchica. Ma lo è nella misura in cui si fa libera di seguire una ispirazione che viene da altrove.
C’è un passaggio nei suoi scritti in cui dice che il compito dell’artista non è rappresentare il mondo, ma lasciare che il mondo lo attraversi. Questa idea è visibile nella selezione esposta, anche nei tratti più lievi: un disegno, una fotografia, una dedica. E poi ci sono le presenze-assenze. Come quella di Raïssa, compagna di vita e di fede, il cui sguardo aleggia in ogni stanza pur non essendo mai al centro. Fu lei a guidare il filosofo verso la conversione, fu lei a costruire attorno a lui un cenacolo silenzioso ma operoso, popolato da artisti e poeti, da credenti e scettici, da cercatori di senso che non avevano paura del dubbio.
Ogni opera presente sembra portare con sé una preghiera incompiuta. La cappella di Vence di Matisse non è solo un capolavoro: è una dichiarazione d’amore per la luce. I crocifissi di Rouault non consolano, ma inquietano. Le forme di Chagall sembrano cercare un linguaggio per dire l’ineffabile, ma lo fanno con la leggerezza del sogno. Nulla, in questa mostra, è “spiegato”. Nulla è chiuso. Ogni teca è una soglia. Ogni tela è un’invocazione. Eppure, la mostra ha anche un sottotesto più urgente: quello della responsabilità dell’arte oggi. In un tempo in cui il sacro è ridotto a souvenir, e la spiritualità a performance estetica, questo percorso espositivo ci interroga su cosa significhi credere nella bellezza come via della verità. E ci ricorda che l’arte sacra, se vuole sopravvivere, non deve essere né nostalgica né decorativa, ma capace di ferire e guarire allo stesso tempo. Il fatto che Paolo VI abbia voluto una Collezione di Arte Religiosa Moderna nei Musei Vaticani — contro molte resistenze, e in un tempo di grandi incertezze — è di per sé un atto profetico.
Non una collezione di santi con l’aureola, ma di artisti che, pur non dichiarandosi credenti, hanno saputo toccare il mistero con onestà. La presenza, in mostra, anche del domenicano Marie-Alain Couturier, teorico di un’arte sacra “liberata” dalla committenza ecclesiastica e più radicale del suo stesso amico Maritain, aggiunge complessità. I due si opposero più volte. Ma non nel nome della verità, bensì dell’urgenza. Due modi diversi di invocare lo stesso Dio.
Forse è proprio questo che ci insegna questa piccola, intensa mostra: che Dio non è dove lo cerchiamo, ma dove siamo disposti ad ascoltarlo. Anche in un segno incerto, in una pennellata sbagliata, in una stanza in penombra dei Musei Vaticani, mentre fuori Roma brulica di turisti e di selfie. Lì, dove l’arte non pretende di convertire ma solo di farsi attraversare dal sacro, nasce la vera spiritualità. E chi guarda non resta mai davvero solo.

Carlo Franza
Storico dell’Arte Moderna e Contemporanea


Fonte: Carlo Franza