Sudan: la lunga fuga di Al Bashir da giustizia penale internazionale

16-05-2023 11:42 -

GD - Roma, 16 mag. 23 - Nel caos del conflitto civile in Sudan, l’ex dittatore Omar Al Bashir, 79 anni, ha abbandonato la prigione di Kober a Khartoum, la capitale, dove era detenuto per corruzione e riciclaggio. Inizialmente, secondo l'esercito Sudanese, i detenuti erano stati trasferiti a causa della mancanza di cibo, acqua e dei tagli all'elettricità della prigione; poi, in un secondo comunicato, questi hanno dichiarato che i prigionieri erano stati spostati in un centro ospedaliero militare per ragioni di salute da prima del conflitto. Insieme ad Al Bashir, ha lasciato la prigione anche Ahmad Muhammad Harun, anch'egli condannato dal Tribunale Penale Internazionale (ICC) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
L’ICC, nel 2010, ha infatti emanato un mandato d’arresto per Al Bashir con l’accusa di crimini contro l’umanità, due di crimini di guerra, e tre di genocidio, per fatti avvenuti durante in conflitto in Darfur. Al Bashir fu infatti presidente del Sudan dall’ottobre 1993 fino all’aprile 2019, e dall'inizio, nel 2003, della guerra nella regione, il suo governo guida una campagna di colma di atrocità su civili.
La popolazione dei gruppi Fur, Masalit e Zaghawa è particolarmente colpita dalle atrocità del governo, in quanto percepiti come sostenitori dei gruppi ribelli. La campagna governativa, supportata dalle milizie filogovernative Janjaweed - conosciute per la loro efferatezza - è atroce e comprende stupri, omicidi di massa, saccheggi, trasferimenti forzati, torture, e contaminazioni di fonti acquifere.
Le accuse di genocidio - Al Bashir è dunque segnalato alla Corte dal Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite nel tardo marzo 2005, con la risoluzione 1593. L’accusa di genocidio contro i gruppi etnici Fur, Masalit, e Zaghawa è di particolar peso, in quanto è stato il primo e finora unico caso in cui la Corte ha emanato un mandato di cattura di un individuo per genocidio, dato il considerabile onere di prove necessario a verificare il compimento di questo stesso.
Difatti, secondo lo Statuto di Roma (1998), trattato fondatore della Corte Penale Internazionale (...) per crimine di genocidio s'intende uno dei seguenti atti commessi nell'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e precisamente:
● uccidere membri del gruppo;
● cagionare gravi lesioni all'integrità fisica o psichica di persone appartenenti al gruppo;
● sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso;
● imporre misure volte ad impedire le nascite in seno al gruppo;
● trasferire con la forza bambini appartenenti al gruppo ad un gruppo.

Statuto di Roma, Articolo 6 - Nonostante gli atti in sé siano chiaramente documentati, stabilire l’intento di distruggere è particolarmente arduo, motivo per cui la parola genocidio ha un peso importante e, persino organizzazioni per diritti umani quali Human Rights Watch non si sono espresse a riguardo, in attesa di un verdetto ufficiale dall’ICC.
Per stabilire l’intento genocida, la Corte sembra aver seguito il concetto di intento realistico, affermando che un intento individuale di distruggere (quello di Al Bashir) diventa collettivo (in questo caso, governativo) quando l’individuo ha pieno controllo della collettività. Perciò, riuscendo a dimostrare l’intento del singolo, la corte sarebbe capace di dichiarare gli atti commessi sotto il controllo di questo come genocidio, senza rendere necessario un intento collettivo più deliberatamente capillare.
La fuga dal mandato di arresto - Per provare i fatti però è necessaria la cattura di Omar Al-Bashir, mai avvenuta. Il mandato è stato infatti richiesto quando Al Bashir era ancora capo di stato del Sudan, in quanto l’immunità presidenziale non è prevista dallo Statuto secondo l’Articolo 27. Ciò nonostante, de facto lo status di presidente in carica ha prevenuto l’arresto di Al Bashir, anzi, questi ha viaggiato liberamente, toccando ben ventidue paesi di cui sette firmatari della Corte. Essere membro della Corte Penale Internazionale infatti implica l’obbligo di arrestare coloro indicati dall’ICC, ma il peso politico di Al Bashir gli ha permesso di viaggiare semi-liberamente e di continuare con quelli che gli osservatori continuano a sancire quali crimini di guerra.
Significativo è il viaggio dell’allora presidente in Sudafrica nel 2015, Stato firmatario del Trattato di Roma, per un incontro dell’Unione Africana. Durante la sua permanenza nel paese sud africano, gruppi di attivisti contro Al Bashir ricorsero alla Corte Nazionale per consegnare il presidente sudanese alla giustizia. Tuttavia, Pretoria, capitale amministrativa del Sud Africa, ha permesso la fuga sicura di Al Bashir, causando però una denuncia contro se stessa alla Corte Suprema Sudafricana.
Al-Bashir comunque finirà in prigione anni dopo, al seguito di un colpo di stato da parte dello stesso esercito che continua ad ignorare gli appelli della Corte e della comunità internazionale e che, adesso, dà informazioni contrastanti riguardo il suo trasferimento e la sua posizione. L’impunità dell’ex-presidente è una prova tangibile della necessità di volontà politica e cooperazione intergovernativa per concretizzare i principi di giustizia penale internazionale.

cura di Gaia De Salvo
Autrice per l’Area Tematica “Diritti Umani”
Mondo Internazionale Post


Fonte: Gaia De Salvo Mondo Internazionale Post