USA-Cina: rischio fenditura tra globalizzazione asiatica e globalizzazione occidentale

17-11-2021 14:29 -

GD – Venezia, 17 nov. 21 - Al termine del COP26, con l’accordo tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese s’intravede finalmente la possibilità di intervenire congiuntamente nei confronti dei cambiamenti climatici, con una sola certezza ben identificata dal premier inglese Johnson: «È iniziata la morte della carbonizzazione».
In realtà, il processo di transizione è destinato a protrarsi sicuramente fino al 2060 ed oltre. Resta tuttavia fondamentale che le due superpotenze, in una lotta ormai scoperta per la supremazia, abbiano comunque, insieme gli altri oltre 200 partecipanti, deciso a Glasgow che, almeno sul clima, bisognerà cooperare.
Il presidente Xi è oggi dotato di pieni poteri come soltanto Mao in precedenza lo era stato e la sua linea è chiaramente definita: lotta contro il protezionismo e l’unilateralismo, per una globalizzazione generalizzata, senza muri, senza tariffe, senza ostacoli, con Pechino che mantiene l’egemonia sul Continente Asiatico sancita dal RCEP, senza intromissioni esterne nell’intera area dell’Indo Pacifico. La Repubblica Popolare Cinese resta una e questo riguarda sia Hong Kong che Taiwan e, a tale scopo, la crescita degli armamenti di ultima generazione deve consentirle non solo di rimanere al passo con gli Stati Uniti e la NATO, ma di restare a pieno titolo nel ristretto cerchio delle superpotenze, addirittura superandole con l’adozione delle nuove e segrete armi ipersoniche.
Resta forte l’alleanza economica e militare con la Federazione Russa e lo stanziamento nel bilancio cinese per le spese militari e di difesa è il più massiccio dell’epoca moderna, poiché supererà nel prossimo triennio i 250 miliardi di dollari di investimenti.
Oltre a proseguire l’espansione nel Continente Africano, la Cina ha aperto un braccio di ferro definito la «pace fredda» con l’India, che con il Governo Modi ha dato il via ad una politica meno equidistante dalle posizioni occidentali, in una sfida crescente che ha come epicentro le aree contese del Kashmir e del Tibet e, nella parte marittima, un aperto confronto con le organizzazioni più simili alla NATO, anche se ancora informali, ovvero il QUAD e, recentissimamente, anche l’AUKUS.
Sul lato continentale, invece, l’Afghanistan ha rappresentato lo spartiacque, con l’uscita di scena nel cuore del Continente Asiatico delle forze della NATO, delle coalizioni “occidentali”, di quelle europee e statunitensi.
I centri studi cinesi hanno definito la fuga dall’Afghanistan come la fine della “politica coloniale” occidentale. Ora sono Russia e Cina a sostituire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Chiave nella vicenda, sono l’Iran e il Pakistan, mentre la diplomazia procede col coinvolgimento degli Emirati e del Qatar, assurti a nuova controparte decisiva per la soluzione dei problemi dell’area.
È evidente, quindi, che la Repubblica Popolare Cinese nel corso dell’ultimo decennio ha scelto di abbandonare la posizione esclusivamente regionale per andare verso una politica estera commerciale e di difesa a tutto campo, molto più aggressiva ed evoluta, nella quale essa diviene, non solo con l’accordo RCEP, il cuore logistico e produttivo asiatico e, sostanzialmente, supera la posizione definita di fabbrica del mondo per trasformarsi nel “centro degli interessi del mondo”.
Anche i Paesi come Giappone, Corea e Australia non possono oggi non tener conto di questa strategia politica e, anche se associati in qualche modo agli Stati Uniti o in organizzazioni militari difensive come il QUAD, sono comunque costretti a mantenere un rapporto economico molto vincolante, che impedisce sostanzialmente una loro piena autonomia, nei confronti della Cina.
L’abbandono dell’Afghanistan, ultimo di una serie di conflitti ingaggiati dall’Occidente nel corso dell’ultimo trentennio, deve richiamare una serie di considerazioni sul ciclo che si sta concludendo, iniziato con la caduta del Muro: non solo la crisi economica e finanziaria, ma anche la tendenza al logoramento del capitalismo liberale, la crescita delle autocrazie, il declino delle democrazie occidentali e la parallela crescita del Continente Asiatico, sullo sfondo di nuove realtà autocratiche derivanti dall’evento pandemico.
Gli Stati Uniti, quindi, sono a un bivio nelle scelte strategiche per il prossimo decennio: decidere se il loro futuro sarà quello di seguire la strada di una nuova Guerra Fredda che destini parte delle risorse a contenere e, ove possibile, fermare l’avanzata della Repubblica Popolare Cinese; oppure indirizzare tutte le forze e le risorse, senza deviazioni, per restare anche nei prossimi decenni la prima superpotenza globale in tutti i campi.
Questo sforzo inevitabilmente comporterà una fenditura nella globalizzazione, che si separerà probabilmente tra globalizzazione asiatica e globalizzazione occidentale, accentuata dalla vicenda della pandemia che prosegue e dalle posizioni poco malleabili ai confini dell’Occidente da parte dell’alleato della Cina, ovvero la Federazione Russa, come le ultime vicende in Bielorussia stanno ancora una volta a dimostrare.
La politica di Joe Biden in questo senso appare ancora incerta, considerato anche che il mostrare i muscoli nei confronti di Pechino è comunque costato la presidenza al suo predecessore. Tuttavia, la scelta strategica degli Stati Uniti non potrà essere rinviata all’infinito e, naturalmente, essa sarà poi determinante anche per il futuro dell’Unione Europea, per il posizionamento del nostro Paese e per il contesto del Mediterraneo.

Arduino Paniccia
Presidente di ASCE-Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia



Fonte: Arduino Paniccia