Kabul addio: l’attivismo diplomatico turco e la freddezza italiana e della UE

21-04-2021 15:40 -

GD – Venezia, 21 apr. 21 - Il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha definito come una “decisione storica” l’annuncio del presidente Joe Biden inerente il ritiro delle truppe della coalizione dall’Afghanistan a partire dal 1° maggio prossimo.
L’attacco statunitense in Afghanistan prese il via quando, il 20 settembre 2001, alla richiesta del presidente George W. Bush di consegnare Osama Bin Laden e chiudere tutti i campi di addestramento qaedisti nel paese, i talebani opposero un netto rifiuto. L’operazione “Enduring Freedom” scatenò una massiccia campagna di bombardamenti americani e inglesi, mentre avanzava sul terreno l’alleanza del Nord. Alla fine di quell’anno Bin Laden fuggì in Pakistan e Karzai divenne presidente provvisorio afghano.
Ebbe così inizio una feroce guerra con una fase di escalation che portò, 10 anni dopo, la missione a oltre 150.000 uomini che, comunque, non sono riusciti, anche insieme alle forze afghane, a controllare l’intero territorio, né a stroncare il traffico di droga e la coriacea resistenza guerrigliero-terrorista.
Già nel dicembre 2011 si aprì la prima conferenza di Bonn per prevedere il ritiro delle truppe della coalizione internazionale e la ricostruzione economica dell’Afghanistan. Da allora sono trascorsi ben 10 anni e, dopo logoranti trattative, il presidente Biden ha ora affermato che è arrivato il momento, per i militari USA e gli alleati, di tornare a casa.
Il futuro dell’Afghanistan da tempo attrae l’interesse non solo delle potenze asiatiche, ossia Russia, Cina e India, ma anche di Pakistan e Iran, nonché degli Emirati e dei Sauditi. Da qualche anno si registra anche un deciso attivismo politico e diplomatico della Turchia.
E proprio Erdogan, con il patrocinio delle Nazioni Unite, ha convocato, con l’obiettivo di superare lo stallo, una conferenza di pace a Istanbul per fine aprile, che dovrebbe vedere partecipanti in prima persona i leader talebani che si eclissano di fronte a qualsiasi invito che imponga loro di rivelare progetti e impegni per la futura gestione del Paese, in comune con l’attuale Governo afghano.
La Turchia islamica rivolge, così, la sua attenzione allo strategico territorio dell’Asia Centrale, ampliando al di là di ogni previsione il proprio interventismo diplomatico e negoziale.
Ciò, tuttavia, non è gradito a molti Paesi coinvolti nella lunga guerra, a partire dagli stessi americani, che hanno trattato a lungo a Doha con la rappresentanza talebana e che non hanno alcuna intenzione di affidare le sorti della pace alla gestione autocratica di Erdogan, né ad altri Stati che hanno partecipato alla missione, come Germania e Italia, che dopo avere subito spese e sacrifici non gradiscono certo di essere scavalcati in questa controversa operazione di uscita dal teatro del conflitto.
Questo contenzioso si aggiunge ai numerosi contrasti in atto rispetto alle mire di espansione di Ankara, dal Caucaso al Nord Africa, dal Medio Oriente al Centro Asia, tra cui quelli sulle prospezioni marittime e le zone economiche, ma anche la presenza in Libia, gli accordi sottobanco in Siria con Putin e le discordanti dichiarazioni rispetto uno dei passaggi strategici nel Mediterraneo: il Bosforo.
Così, la spregiudicatezza politica di Erdogan sembra essere arrivata ad un punto cruciale di svolta, segnato dalle dichiarazioni prima di Biden e poi di Draghi di stigmatizzare pubblicamente l’operato del “Sultano”.
La Turchia, con il “Processo di Istanbul”, intende mettere in campo tutta la forza trainante del richiamo islamico destinato, nelle intenzioni di Ankara, a non fermarsi ad una semplice mediazione sull’Afghanistan, ma ad un progetto di più ampia gittata che non solo intende superare lo stallo negli accordi di Doha del 2020, ma punta alla sostituzione della presenza occidentale in un’area strategica ai confini con la Cina e con la Federazione Russa.
Questa inedita operazione diplomatica e geopolitica è fortemente appoggiata dal Pakistan, Paese da decenni in posizione molto delicata, che ritroverebbe, così, un posizionamento che l’ondivaga alleanza con gli Stati Uniti e il coinvolgimento terroristico nelle vicende afghane gli hanno per lungo tempo negato.
Sta di fatto che le potenze occidentali sembrano ancora una volta uscire di scena dalle vicende asiatiche, mentre prendono “posizione” le potenze regionali islamiche, nel tentativo da un lato di controllare le spinte più intransigenti e fondamentaliste del loro sistema, dall’altro di creare nuove alleanze e nuove coalizioni, che sostituiscano le politiche di intervento europee e americane.
In conclusione, mentre escono di scena le Nazioni che hanno combattuto a fianco degli americani, tra cui l’Italia con i suoi 890 uomini ancora sul campo, i Paesi confinanti si preparano a gestire un difficile futuro turbolento e pieno di incognite, compensato dalla possibile spartizione di importanti risorse.

Prof. Arduino Paniccia
Presidente di ASCE Scuola di Guerra Economica e Competizione Internazionale di Venezia


Fonte: Arduino Paniccia