Focus ISPI, il Venezuela allo stremo verso il voto

30-03-2018 18:09 -

GD - Roma, 30 mar. 18 - Il Venezuela è allo stremo. Dopo oltre cinque anni di crisi economica, politica e sociale, l´emergenza umanitaria divampa: sono ormai centinaia di migliaia i cittadini venezuelani che si riversano nei paesi confinanti e oltreoceano. Sciolto il Parlamento, bandite le opposizioni e represse le manifestazioni di piazza, il presidente Nicolàs Maduro è ormai solo al comando. C´è, forse, una novità: le elezioni presidenziali più volte promesse e rimandate sembrerebbero finalmente fissate per il mese di maggio. Un banco di prova per il successore di Hugo Chavez? Probabilmente non decisivo, perché nel Paese che fino a pochi anni fa era tra i più ricchi dell´America Latina il processo democratico appare oggi irrimediabilmente compromesso. Qual è la situazione reale del Venezuela oggi? Cosa permette a Maduro di rimanere saldamente in sella, malgrado una crisi economica e umanitaria in cui versa il paese? Quali conseguenze per la regione? E cosa fa la comunità internazionale?
In Venezuela - scrive il professor Loris Zanatta, dell´Università di Bologna e analista dell´Ispi - è come nel Gattopardo: tutto cambia perché nulla cambi. O come diceva Andreotti: il potere logora chi non ce l´ha. L´assemblea costituente ha convocato in fretta elezioni presidenziali per il 22 aprile, poi posticipate al 20 maggio prossimo. Strana assemblea: in sei mesi ha parlato tanto e prodotto poco. Nessuna norma costituzionale. Quale sia la sua funzione è d´altronde noto: esautorare l´assemblea legislativa dominata dall´opposizione. Missione compiuta. Eppure ogni volta che il regime venezuelano indice elezioni, ricomincia il solito tourbillon: saranno regolari? Compaiono così "mediatori" colmi di buone intenzioni ma di dubbio acume. Si direbbe non abbiano appreso nulla dai fallimenti passati. Pare sfuggire loro che il problema è sempre lo stesso, ma il contesto è cambiato. A meno che non abbiano capito benissimo l´antifona e reggano il gioco a Maduro: non si può escludere. Ai tempi di Chávez le elezioni erano partite giocate su un campo inclinato: l´opposizione calciava la palla in salita e il governo in discesa. Ma almeno c´era una partita.
Da quando la Mesa de Unidad Democrática stravinse le parlamentari del 2015, la partita non c´è più. Da allora, non solo il campo è inclinato e l´arbitro indossa la maglia della squadra di casa, ma all´avversario non è consentito scendere in campo. Se lo fa, è a suo rischio e pericolo. Fuori di metafora: il governo non indice elezioni perché intenda rispettarne il risultato. Lo fa per allentare le pressioni internazionali, per prendere tempo mentre compie altri passi per consolidare il potere assoluto. Infatti ogni volta che si parla di votare, il regime ha occupato posizioni più avanzate della volta precedente. Non a caso è un regime militare creato da un militare: conquista terreno e poi fa la ritirata tattica che gli consentirà di ripartire all´attacco domani. Tanto schiamazzo intorno alle elezioni, ma sempre lo stesso copione.
Le elezioni servono al regime - prosegue il professor Zanatta - per dividere l´opposizione, per inserire nel suo seno un cuneo. Sull´opposizione venezuelana è facile fare ironie: manca di leadership, identità, strategia. Criticarla è uno sport popolare, ma è come sparare sulla Croce Rossa. Si dice sia troppo eterogenea. È vero, ma inevitabile. Laddove il regime ambisce a incarnare il tutto e trasforma la dialettica politica in guerra di religione, in lotta a morte tra un "noi" e un "loro", è inevitabile che il fronte oppositore sia una frastagliata coalizione; un agglomerato che in un sistema pluralista si spalmerebbe lungo l´asse ideologico.
Ma il potere logora chi non ce l´ha e l´opposizione venezuelana non ne ha per nulla. Cosa dovrebbe fare? Qualcuno lo sa? Ogni volta che il regime indice elezioni, sa che l´opposizione si dividerà: tra chi ci crede e chi no, chi spera ancora e chi non spera più. È chiusa in una trappola mortale: se negozia, dà al regime il tempo e la legittimità che cerca; se rifiuta, il regime guadagnerà punti accusandola di intransigenza.
Credere alle elezioni di Maduro - prosegue il focus dell´Ispi - implica una scarsa conoscenza della natura del suo regime. Come gli altri populismi latinoamericani, odia la democrazia liberale, il pluralismo politico, la separazione dei poteri. Perón vinse le elezioni, ma poi cercò di imporre il suo dominio assoluto. Castro promise di restaurare la Costituzione democratica, ma la affossò per sempre. Proprio Fidel fu padre politico di Chávez, zio di Maduro. "Una volta conquistata la democrazia – insegnò loro – si conquista il potere". Cos´è il potere? "È l´esercito – diceva Fidel – la polizia, le forze armate, l´organizzazione politica del Paese, l´istruzione, la sanità pubblica e ovviamente l´economia": tutto ciò "deve essere nelle mani del governo". A quel punto "la rivoluzione" sarà imbattibile. Tale è la logica cui si ispira il regime venezuelano. Dunque? Che fare col Venezuela? Il regime non abbandonerà mai il potere perché sconfitto alle elezioni. Maduro le vincerà a man bassa perché proibisce all´opposizione di partecipare, perché la gran parte dei venezuelani non ci crede, perché tutti gli altri non possono mordere la mano che gli dà il poco che hanno ma può toglierglielo all´istante. E poi truccherà i numeri: chi glielo impedisce? Il potere non è in disputa. Se non bastasse l´apparato di sicurezza a garantirlo, ci sono a potenziarlo alcune decine di migliaia di "consiglieri" cubani: loro sanno bene come "il potere" si conserva. Non rimane che premere dall´esterno.
Solo una forte e coordinata pressione internazionale - è la conclusione del professor Zanatta - può acuire le crepe nel regime. Solo il collasso interno può mettere in ginocchio regimi simili. Ci sono crepe nel chavismo? Poco ma sicuro, benché sia difficile misurarle. Ne sono sintomo il crescente numero di dirigenti chavisti scesi dalla barca del regime, le drastiche purghe degli ultimi tempi.Il problema è che succede con le pressioni esterne lo stesso che con le interne: c´è chi è deciso e chi no, chi vuole chiudere le porte e chi tenere aperto uno spiraglio. Magari con la scusa di non spingere Maduro tra le braccia di Cina e Russia. Ma tra quelle braccia Maduro si trova già e desidera starvi. Come ogni regime simile del passato, trova naturale cercare riparo presso i nemici dell´Occidente. Per i suoi nuovi alleati, non è detto sia un buon affare. A questo punto, darlo per perso e negargli vie di fuga attraverso inverosimili "dialoghi", potrebbe aiutare a recuperarlo. È un dovere di tutti e tra tutti dell´America Latina in primo luogo.


Fonte: Carlo Rebecchi