Il Libano tra riforme e rischio di nuova crisi settaria
14-09-2025 09:41 - Opinioni
GD - Beirut, 14 set. 25 – L’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e la formazione del Governo guidato da Nwaf Salam segnano una fase delicata per il Libano. Per la prima volta dopo anni di vuoto istituzionale, Beirut prova a ridefinire i propri equilibri interni, con l’obiettivo dichiarato di reintegrare Hezbollah nell’esercito regolare. Una prospettiva che incontra l’interesse della comunità internazionale ma solleva anche profonde resistenze interne.
Il Paese dei Cedri resta prigioniero della propria architettura confessionale, definita dal Patto nazionale del 1943 e rimodellata dagli accordi di Taif del 1989. La distribuzione delle cariche politiche e ministeriali continua a rispecchiare un fragile bilanciamento tra cristiani, sunniti e sciiti, favorendo logiche clientelari più che criteri di efficienza. La stessa gestione delle risorse economiche resta segnata da corruzione e da un debito pubblico che secondo i dati del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale supera ormai il 170% del Pil.
Il nuovo presidente, già Capo di Stato Maggiore delle Forze armate, ha impostato il proprio programma sul consolidamento dello Stato centrale. Nei mesi scorsi Aoun ha raggiunto un’intesa con la leadership palestinese per il disarmo delle milizie nei campi profughi, definita “storica” da fonti diplomatiche. Tuttavia, replicare lo stesso modello con Hezbollah appare molto più complesso.
Il movimento sciita, nato nel 1982 in risposta all’invasione israeliana, ha saputo trasformarsi in un attore politico e sociale radicato. La sua capacità di fornire servizi nelle regioni meridionali e nella valle della Beqaa gli ha garantito una base di consenso ampia, rafforzata dalla retorica della resistenza contro Israele. La morte del leader Hassan Nasrallah durante i combattimenti del 2024 ha colpito la leadership, ma le manifestazioni popolari di agosto confermano la volontà della comunità sciita di non rinunciare al braccio armato senza precise garanzie di sicurezza.
Su questo punto pesano diversi fattori esterni. La caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria ha aperto un fronte ostile ai confini orientali, mentre l’Iran, tradizionale sponsor di Hezbollah, attraversa una fase di transizione politica interna. Israele, dal canto suo, minaccia nuove incursioni qualora il gruppo non venga disarmato, contando sull’appoggio tacito di Washington.
Il Governo Salam deve quindi calibrare ogni passo. Una forzatura rischierebbe di alimentare tensioni settarie e riaprire il capitolo di una guerra civile mai del tutto archiviata. Una concessione eccessiva riporterebbe invece alle dinamiche di ricatto confessionale che hanno paralizzato lo Stato per decenni. In vista delle legislative del 2026, la tenuta dell’esecutivo dipenderà dalla capacità di mediare tra pressioni esterne e coesione interna.
All’orizzonte incombe un ulteriore elemento di incertezza: la missione Unifil, la cui conclusione è prevista nel 2027. Nonostante limiti operativi, la presenza internazionale ha rappresentato un deterrente a nuove escalation lungo la frontiera meridionale. La sua uscita di scena potrebbe indebolire il margine negoziale di Beirut e offrire a Israele un pretesto per colpire nuovamente.
Il futuro del Libano si gioca quindi su un equilibrio fragile. Se il piano di reintegro delle milizie dovesse fallire, lo scenario peggiore resta quello di un nuovo conflitto interno, con conseguente destabilizzazione regionale. Se, invece, Aoun e Salam riusciranno a guidare il Paese verso un compromesso sostenibile, il Libano potrebbe diventare un modello di reintegrazione nel quadro dei nuovi assetti mediorientali legati agli accordi di Abramo.
In prospettiva, la fase che il Libano attraversa non riguarda soltanto la propria sopravvivenza istituzionale. Essa rappresenta un test per l’equilibrio mediorientale, in cui le dinamiche interne si intrecciano con gli interessi di potenze regionali e globali. Per Washington la stabilità libanese è parte degli Accordi di Abramo; per Israele, garanzia di sicurezza al confine nord; per l’Iran, Hezbollah resta simbolo della propria influenza. La capacità di Beirut di mediare tra queste pressioni determinerà se il Paese dei Cedri potrà rinascere o ricadere nel ciclo delle crisi decisive.
Giampaolo Eleuteri
analista di geopolitica ed esperto area MENA
Fonte: Giampaolo Eleuteri
Il Paese dei Cedri resta prigioniero della propria architettura confessionale, definita dal Patto nazionale del 1943 e rimodellata dagli accordi di Taif del 1989. La distribuzione delle cariche politiche e ministeriali continua a rispecchiare un fragile bilanciamento tra cristiani, sunniti e sciiti, favorendo logiche clientelari più che criteri di efficienza. La stessa gestione delle risorse economiche resta segnata da corruzione e da un debito pubblico che secondo i dati del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale supera ormai il 170% del Pil.
Il nuovo presidente, già Capo di Stato Maggiore delle Forze armate, ha impostato il proprio programma sul consolidamento dello Stato centrale. Nei mesi scorsi Aoun ha raggiunto un’intesa con la leadership palestinese per il disarmo delle milizie nei campi profughi, definita “storica” da fonti diplomatiche. Tuttavia, replicare lo stesso modello con Hezbollah appare molto più complesso.
Il movimento sciita, nato nel 1982 in risposta all’invasione israeliana, ha saputo trasformarsi in un attore politico e sociale radicato. La sua capacità di fornire servizi nelle regioni meridionali e nella valle della Beqaa gli ha garantito una base di consenso ampia, rafforzata dalla retorica della resistenza contro Israele. La morte del leader Hassan Nasrallah durante i combattimenti del 2024 ha colpito la leadership, ma le manifestazioni popolari di agosto confermano la volontà della comunità sciita di non rinunciare al braccio armato senza precise garanzie di sicurezza.
Su questo punto pesano diversi fattori esterni. La caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria ha aperto un fronte ostile ai confini orientali, mentre l’Iran, tradizionale sponsor di Hezbollah, attraversa una fase di transizione politica interna. Israele, dal canto suo, minaccia nuove incursioni qualora il gruppo non venga disarmato, contando sull’appoggio tacito di Washington.
Il Governo Salam deve quindi calibrare ogni passo. Una forzatura rischierebbe di alimentare tensioni settarie e riaprire il capitolo di una guerra civile mai del tutto archiviata. Una concessione eccessiva riporterebbe invece alle dinamiche di ricatto confessionale che hanno paralizzato lo Stato per decenni. In vista delle legislative del 2026, la tenuta dell’esecutivo dipenderà dalla capacità di mediare tra pressioni esterne e coesione interna.
All’orizzonte incombe un ulteriore elemento di incertezza: la missione Unifil, la cui conclusione è prevista nel 2027. Nonostante limiti operativi, la presenza internazionale ha rappresentato un deterrente a nuove escalation lungo la frontiera meridionale. La sua uscita di scena potrebbe indebolire il margine negoziale di Beirut e offrire a Israele un pretesto per colpire nuovamente.
Il futuro del Libano si gioca quindi su un equilibrio fragile. Se il piano di reintegro delle milizie dovesse fallire, lo scenario peggiore resta quello di un nuovo conflitto interno, con conseguente destabilizzazione regionale. Se, invece, Aoun e Salam riusciranno a guidare il Paese verso un compromesso sostenibile, il Libano potrebbe diventare un modello di reintegrazione nel quadro dei nuovi assetti mediorientali legati agli accordi di Abramo.
In prospettiva, la fase che il Libano attraversa non riguarda soltanto la propria sopravvivenza istituzionale. Essa rappresenta un test per l’equilibrio mediorientale, in cui le dinamiche interne si intrecciano con gli interessi di potenze regionali e globali. Per Washington la stabilità libanese è parte degli Accordi di Abramo; per Israele, garanzia di sicurezza al confine nord; per l’Iran, Hezbollah resta simbolo della propria influenza. La capacità di Beirut di mediare tra queste pressioni determinerà se il Paese dei Cedri potrà rinascere o ricadere nel ciclo delle crisi decisive.
Giampaolo Eleuteri
analista di geopolitica ed esperto area MENA
Fonte: Giampaolo Eleuteri